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Un anno decisivo?

Paolo Pombeni - 04.01.2017
Beppe Grillo Buon 2017

I pronostici di inizio anno sono un genere letterario del giornalismo e diventano quasi obbligatori nei momenti di crisi. Prevedere è sempre un esercizio rischioso, ma lo è particolarmente nella sfera politica dove è impossibile pronosticare tutte le variabili con cui si dovranno fare i conti nel corso dei prossimi dodici mesi. E’ invece relativamente facile cercare di analizzare la situazione di partenza, cioè quali sono i problemi sul tappeto e come oggi si preparano, o non si preparano ad affrontarli le forze in campo.

La domanda che domina su tutte è quella che per certi aspetti ha meno a che fare con le questioni strutturali con cui saremo chiamati a misurarci. Ci si chiede infatti se e quando l’Italia andrà al voto.

Più o meno tutte le forze politiche pensano che sia un traguardo a cui si arriverà al massimo entro l’autunno a meno che non intervenga qualche fattore esterno ad impedire lo scioglimento anticipato della legislatura. Si dovrebbe però immaginare qualcosa di molto grave e dunque c’è da augurarsi non sia così, anche perché comunque la legislatura si chiuderà a febbraio 2018, dunque non è che sarebbe risolutivo anche in presenza di gravi turbamenti tirare avanti qualche mese in una situazione ormai evidente di rissa politica generalizzata.

Infatti il problema fondamentale è questo: manca un clima di coesione nazionale per quanto minima ed intesa come elemento politico non come il fantasioso e ridicolo “vogliamoci tutti bene”. Eppure la gente sente questo problema, smaltita la tensione artificiale indotta nel paese dal referendum costituzionale. La prova più evidente di questo è il discorso di Capodanno di Beppe Grillo a cui va riconosciuto fiuto nel cogliere gli umori profondi del paese. Il suo sventolare la bandiera nazionale, l’inno alla diversità dell’Italia, l’appello a considerarci migliori e dunque capaci nel nuovo anno di realizzare quel passo avanti che è necessario, sono tutti elementi che indicano come il fondatore dei Cinque Stelle immagini oggi lo slogan centrale della prossima campagna elettorale.

Ovviamente Grillo lo fa per candidare il suo movimento ad essere il realizzatore di questa svolta e proclama, ma è inevitabile e dal suo punto di vista logico, che M5S è l’unica forza in grado di portare a termine il progetto. Resta però che questo è il terreno su cui sceglie di sfidare gli avversari e sottovalutare questo dato sarebbe miope.

Del resto il problema della coesione nazionale e del necessario superamento di una politica fondata sull’odio reciproco sono temi che ha posto anche il presidente Mattarella nel suo messaggio di fine anno e anche questo non è banale, considerando che lo ha fatto dopo avere elencato, quasi minuziosamente, i problemi e le debolezze con cui deve fare i conti il nostro paese.

A questo punto la domanda è quanto le forze politiche in campo siano in grado di fare questo tipo di scelte. All’estremo troviamo la Lega e i suoi alleati che giocano lo stesso tema della coesione nazionale, ma in termini tecnicamente reazionari: coesione nazionale significa “prima gli Italiani”, chiusura nel nostro fortino, via dall’Europa, e insomma cancellazione di quel “progresso” che nella fantasia di Salvini e compagni non ci avrebbe fatto andare avanti ma indietro. E’ anche questa una strategia che parla alla pancia del paese, ma che non ha la capacità inclusiva di cui dispone il grillismo nella sua continua e voluta ambiguità sui grandi temi in campo.

I partiti tradizionali invece soffrono e non poco di una mancanza di politica capace di essere “nazionale”. L’estrema sinistra, sia politica che sindacale, si arrocca a sua volta nella nostalgia dei bei tempi andati e si illude di avere seguito proponendo la difesa ad oltranza di quanto si è ottenuto nei tempi di vacche grasse, senza rendersi conto che quelli sono ormai privilegi per sopravvissuti il cui mantenimento è pagato da un ampliamento inaccettabile delle condizioni di diseguaglianza.

Gli ex due grandi partiti di sistema, il PD e Forza Italia, sembrano parallelamente inchiodati alla riproposizione, pur con retoriche alternative, del sogno di una rinascita dolce: un paese che può risorgere basta che lo voglia, una sopravvalutazione di tutti i segnali positivi che pure esistono, un ritorno alla logica dei negoziati corporativi per quanto opportunamente mascherati. Ci sono infinite varianti nella declinazione di questo modo di affrontare la situazione, ma la sostanza ci sembra questa.

E’ questo quadro a preoccupare chi cerca di capire quale potrà essere l’esito della prova elettorale a cui inevitabilmente saremo prima o poi chiamati e ancor prima ad impensierire chi vorrebbe avere qualche elemento per interpretare il ruolo che in un contesto del genere potrà avere il governo Gentiloni, che si trova a doversi muovere in questo mare di nebbie che non consentono di avere punti di riferimento rispetto ai quali orientare la rotta.

Il tema di come si possa ricostruire una coesione nazionale è cruciale e si pone in un clima di contrapposizioni a cui nessuno vuol rinunciare: non il populismo più o meno becero, non quelli che cercano in continuazione spallate referendarie, non i politici ottenebrati dalla ricerca di quella che abbiamo chiamato la “pietra filosofale” del sistema elettorale capace di fare il miracolo di sistemare le loro lotte di potere.