Il genocidio degli yazidi. L'Isis e la persecuzione degli «adoratori del diavolo»
Genocidio, questa parola coniata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin dopo l’Olocausto, non resta purtroppo relegata al Novecento o a pagine di storia ancor più remote. In tutta la sua terribile valenza, l’idea dello sterminio di un intero popolo resta un’opzione aperta del nostro presente, in un filo rosso che dall’attualità di questi anni risale alla Shoah, al genocidio armeno, e ancora più indietro. E il primo genocidio del XXI secolo – in larga parte ignorato dal mondo, come è avvenuto spesso nella storia – ha investito una piccola minoranza religiosa del Medio Oriente, quella degli yazidi.
A usare questo termine per questo specifico caso sono diverse organizzazioni internazionali, ma anche l’ONU, che in una sua indagine lo definisce un genocidio tuttora in corso. Oltre tremila donne di questo popolo, di lingua e cultura curda, in larga parte stanziato nel Nord dell’Iraq, restano tuttora tenute in uno stato di schiavitù nelle mani dei miliziani dell’ISIS, mentre – secondo una recente indagine dell’Associated Press – si stima siano almeno settantadue le fosse comuni legate a questi massacri, contenenti tra i cinque e i quindicimila corpi. Eppure, mentre i media ripetono come un mantra la parola terrorismo, e mentre il dibattito sulla violenza delle donne torna finalmente al centro della scena, il destino di questa minoranza – implacabile, ma lontano – continua a lasciarci indifferenti, non fa titolo, non tocca nessuno.
Un tragico errore, se consideriamo l’importanza di questo evento – che ha avuto inizio nell’agosto 2014, con la presa della regione del Sinjar, fra deportazioni di ragazze e bambini ed esecuzioni di massa di interi villaggi – nella macchina della propaganda dello Stato Islamico, che non solo non ha taciuto i suoi crimini, ma se ne è anzi vantato apertamente, al punto da dichiarare i suoi intenti genocidari a chiare lettere sui suoi canali di comunicazione. Finché le autorità irachene e la comunità non prenderanno sul serio quanto avvenuto a questa e alle altre minoranze dell’Iraq, sull’orlo dell’estinzione, finché non saranno perseguiti mandanti e esecutori, finché non si estirperanno le radici dell’odio che hanno favorito la complicità e l’approvazione – fondamentale, oggi come nei genocidi di ieri – di una parte importante della società civile, soprattutto araba e sunnita, il virus dell’intolleranza e del terrore non sarà mai eliminato. E a poco o nulla, ripetono gli yazidi, servirà la caduta dell’Isis, se mancano queste premesse.
Certo, non è la prima volta che questa minoranza viene perseguitata nel corso della sua storia millenaria. Accusati di essere eretici o apostati, gli yazidi hanno fondato la loro identità nel sangue e nella paura. Vittime in tempi recenti, come e più degli altri curdi, dei tentativi di pulizia etnica portati avanti da Saddam Hussein, gli yazidi non hanno trovato pace neanche con la sua caduta. Anche oggi, dopo che l’avanzata dell’Isis si è ormai arrestata, e i miliziani arretrano e perdono una città dopo l’altra, gli yazidi vivono ancora a centinaia di migliaia in campi profughi, privi dei servizi più elementari. Ma non si tratta di profughi come gli altri: gli yazidi hanno perso tutto, sono sopravvissuti al massacro sistematico delle loro famiglie e alla quasi completa scomparsa della loro cultura, mentre le donne che ho incontrato raccontano infiniti episodi di violenza sessuale subiti dagli uomini dell’Isis, che hanno teorizzato apertamente – nel caso degli yazidi – il ripristino dell’istituzione della schiavitù e la liceità dei loro abusi su queste ragazze, ridotte a pura merce da scambiare, bottino di guerra, tragici trofei dei loro passati trionfi bellici.
Ed ecco allora come nel giro di pochi anni si sia giunto, nell’indifferenza di tutti, al rischio concreto di cancellare per sempre i millenni di convivenza, in terra curda e irachena, di una pluralità di fedi e confessioni, culture e lingue, travolte dall’insorgere di un fondamentalismo religioso che si professa restauratore della purezza dell’islam dei tempi del profeta Mohammad, ma che è in realtà modernissimo nella ferocia dei suoi mezzi militari e della comunicazione. E in questo quadro tragico e allarmante è subentrato nelle ultime settimane un nuovo elemento potenzialmente assai pericoloso. Gli yazidi, questo popolo di profughi e di sopravvissuti, si trovano di nuovo nel bel mezzo del grande gioco del Medio Oriente, ora che le forze irachene, insieme ai loro sostenitori internazionali, hanno iniziato ad avanzare di nuovo in terra curda, con la concreta possibilità che le minoranze si trovino ancora una volta a pagare questa nuova transizione, e il vuoto di potere che ne potrebbe conseguire.
Ma, ancora una volta, il mondo guarda altrove, ignaro che proprio sul corpo di queste donne e di questi uomini si combatta una guerra che, oltre alla loro stessa sopravvivenza, rischia di minacciare le già fragili speranze di pace e di riconciliazione nel futuro dell’Iraq e del Medio Oriente. Sulle loro membra ferite, senza pace, resta impresso un marchio non meno doloroso del sangue e degli abusi subiti: quello del silenzio. Un silenzio che racconta al mondo che tutto è lecito, che nulla ha conseguenze, quando a subire la violenza sono coloro che sono lontani, che non hanno voce, privi di alcun modo per difendersi.
* Simone Zoppellaro è giornalista freelance e collaboratore dell'Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda. I suoi articoli sono apparsi su alcuni fra i maggiori quotidiani nazionali e sono stati tradotti in diverse lingue. Di recente ha pubblicato il volume "Il genocidio degli yazidi. L'Isis e la persecuzione degli «adoratori del diavolo»" http://guerini.it/index.php/il-genocidio-degli-yazidi.html
di Paolo Pombeni
di Simone Zoppellaro *