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Il crepuscolo del "duumvirato" gialloverde

Luca Tentoni - 27.07.2019
crisi governo salvini di maio

Il "contratto di governo" sta per compiere i suoi primi quattordici mesi di vita, ma il tempo e gli avvenimenti politici lo hanno logorato. Solo per evidenziare una delle caratteristiche principali, la previsione del comitato di conciliazione, si può notare che le procedure per superare contrasti e momenti difficili sono state trasformate in prassi meno formali e più politiche. La stessa struttura del "contratto" era concepita per cercare di dare uguale peso alle richieste di ciascuna parte, evitando le asperità e sorvolando sulle questioni nelle quali Lega e Cinquestelle erano (e sono) molto distanti. La stessa prassi dei primi mesi di governo era improntata ad una serie di scambi alla pari: il M5S otteneva il reddito di cittadinanza, il Carroccio la "quota 100" per le pensioni. Ad ogni provvedimento caro ad un partito doveva affiancarsene uno gradito all'altro. Del resto, la maggioranza gialloverde era nata su un patto fra pari, anche se i numeri in Parlamento non erano affatto tali: poiché i voti si pesano e non si contano, Salvini e Di Maio avevano scelto un accordo alla pari, anche perché non avrebbero potuto fare altrimenti. Due partiti differenti, opposti per molti versi (persino nella distribuzione geografica dei voti) e su molti temi, uniti dalla necessità di sfruttare una grande occasione, forse irripetibile: andare al governo. Se il "contratto" non fosse stato siglato, si sarebbe andati a nuove elezioni con la Lega ancora nel centrodestra, il M5s di nuovo da solo e forse con lo stesso esito del 4 marzo 2018. Il patto, invece, prometteva vantaggi ad entrambi i contraenti. A Di Maio dava non Palazzo Chigi, ma la leadership del suo movimento e la possibilità di entrare nella "stanza dei bottoni" (dove, com'è noto, i bottoni del Potere non ci sono mai stati) cercando di trasformare i Cinquestelle da movimento di protesta a forza politica capace di realizzare le ingenti promesse fatte in campagna elettorale. A Salvini, invece, il governo gialloverde permetteva di "lasciare la casa del padre" (Berlusconi) e di far emancipare la Lega, trasformandola nel motore di una doppia potenziale maggioranza: a livello nazionale, con il M5S; nelle regioni e nei comuni, col centrodestra. Era proprio in quest'ultimo punto - oltre che nell'attivismo del leader leghista in tema di immigrazione - il "vizio d'origine" che avrebbe in pochissimo tempo cambiato i rapporti di forza fra i due partiti. La ripartizione dei punti programmatici e del potere fra i gialloverdi era pari al 50% per ciascuno, perché quel 32% dei Cinquestelle sarebbe rimasto inutilizzato senza un alleato (il Pd non era disponibile; non c'era alternativa a Salvini) mentre il 17% della Lega era già, per il Carroccio, oltre al quid necessario per far arrivare a Palazzo Chigi il M5S, anche il grimaldello per scardinare da una parte le gerarchie del centrodestra (minacciando di portare in periferia l'accordo nazionale con i "grillini") e, dall’altra, facendo saltare in un sol colpo il muro che anni di contrapposizione avevano eretto fra simpatizzanti leghisti e pentastellati. In quel 32% del M5s, infatti, c'era una buona fetta dei delusi dal vecchio centrodestra, di chi aveva smesso di votare Lega o Pdl nel 2012-2013 per rifugiarsi nel contenitore "pigliatutto" di Grillo. Chi, invece, era rimasto col Carroccio aveva evidentemente passato una sorta di "selezione darwiniana", restando fedele alla Lega - e, in generale, al centrodestra - in tutte le traversie del periodo 2012-2014 e non era dunque esposto più di tanto alla suggestione di cambiare voto per scegliere il M5S fresco alleato di governo. Nel movimento pentastellato, la "caduta del muro" rendeva Salvini non solo presentabile, ma accettabile, poi politicamente attraente e infine il naturale approdo, in occasione delle europee del 2019. Mentre Lega e M5s facevano approvare quasi contemporaneamente i rispettivi provvedimenti preferiti, la contesa si spostava su un altro piano, mediatico, sul quale l'abilità di Salvini si sarebbe ben presto dimostrata irresistibile. Di fronte alla consumata esperienza del leader leghista, la "novità" grillina si sarebbe presto trasformata in un faticoso e impervio noviziato costellato di problemi. Il tutto, mentre persino il "notaio" del "contratto", il presidente del Consiglio, cominciava lentamente ma inesorabilmente a ritagliarsi un ruolo sempre più importante: non a scapito del ministro dell'Interno, ma togliendo di fatto visibilità all'altro vicepresidente. I due contraenti, che in pochi mesi erano diventati uno maggiore (Salvini), uno minore (Di Maio) con un terzo quasi ridotto a comprimario (Conte), si sono trasformati, in un anno, in una sorta di dominus della maggioranza (Salvini), un mediatore capace di tenere i contatti col Quirinale e di conquistare una certa visibilità (in alcuni momenti si è persino parlato di Conte come possibile nuovo candidato premier del M5s al posto di Di Maio) e un terzo, indebolito dalla sconfitta alle europee, assediato da una base scontenta per le troppe concessioni fatte alla Lega e non più amato neppure in certi settori parlamentari del M5s. Di fatto, così, il contratto fra pari è diventato un simulacro: lo si è visto sulla Tav e su molto altro. Del resto, oggi Salvini può decidere se e quando provocare la crisi di governo, avendo la possibilità di scegliere fra vincere le elezioni e andare a Palazzo Chigi (col rischio, però, di restare da solo a decidere, non avendo capri espiatori e alleati sui quali scaricare le colpe di eventuali mancate realizzazioni) o restare in un Esecutivo che virtualmente domina e nel quale può permettersi di fare ogni tanto piccole concessioni agli alleati, salvo additarli all'opinione pubblica come "quelli che frenano". Inoltre, la Lega ha dalla sua la possibilità di stracciare il contratto e di finanziare il programma di un eventuale monocolore del Carroccio con i fondi che oggi sono destinati ai provvedimenti cari ai Cinquestelle. Il M5S, invece, ha come prospettiva la sopravvivenza al governo o il ritorno all'opposizione. Lo stesso "mandato zero" non vale per i parlamentari, quindi un'intera classe dirigente approdata alla Camera e al Senato nel 2013 rischia di andare a casa senza aver realizzato molte promesse (anzi, avendo agevolato lo svuotamento dell'elettorato di destra del M5s a favore della Lega, proiettando verosimilmente il Carroccio e FdI verso la maggioranza dei seggi alle prossime elezioni). La scatoletta di tonno, in realtà, l'ha aperta Salvini, prosciugando alle europee l'elettorato pentastellato da Roma in su. Tuttavia, si andrà avanti ancora per qualche mese col governo gialloverde. Il "contratto" si scolorisce al sole dell'estate, sostituito dalla legge del più forte, mentre si prepara un autunno che potrebbe essere caldo per tutti, in un quadro di instabilità politica e di fluidità elettorale che non fornisce a nessuno troppe garanzie: né a chi oggi ne ha comunque molte (Salvini), né a chi ne ha poche (il Pd, FdI) o non ne ha quasi per niente (M5S, FI).