I dilemmi della politica: polarizzazione o centro vitale?
Di fronte a quanto stiamo assistendo in questi giorni viene in mente una vecchia diatriba che ha diviso per decenni gli studiosi di politica, specie italiani: se la miglior organizzazione di un sistema politico sia quella che vede contrapporsi due fronti netti e distinti, la destra e la sinistra, o se sia quella che ne affida la guida ad un centro “vitale” in quanto capace di comporre il buono che c’è da una parte e dall’altra.
Detta così la teoria è un poco schematica, ma riflette l’andamento del dibattito pubblico nel nostro paese dopo la fine della cosiddetta repubblica dei partiti. Quando quella era in auge molti studiosi si lamentavano che da noi non ci fosse il bipolarismo che allora si pensava caratterizzare le grandi democrazie: Gran Bretagna e USA in primis, ma, sia pure con qualche sbavatura, anche la Germania Federale. I pochi che non accettavano questa impostazione badavano a dire che al contrario da noi la forza del sistema veniva da un grande centro, nella fattispecie la DC, che era, per usare una famosa definizione di De Gasperi, un partito di centro che guardava a sinistra (lui a destra, lo si dimentica, non voleva guardare).
Vedendola da un punto di vista più generale si dibatteva se il motore della grande politica non fosse nello scontro conservatori vs. progressisti, con l’alternanza fra i due poli, oppure se non fosse nella competizione fra questi per conquistarsi i favori del “centro”, quell’elettorato che non aveva fatto scelte di schieramento a priori e che invece si spostava di volta in volta verso la componente che dava maggiori garanzie di efficiente realismo.
In astratto il dibattito può continuare in eterno, nel concreto oscilla secondo le mode del momento. Per decenni in Italia ci si è lamentati di non avere lo scontro fra destra e sinistra, ovviamente entrambe democratiche, e si è finto di non vedere che entrambe, ovviamente così come esistevano concretamente, cercavano in realtà di sfondare al centro. Adesso le cose sono cambiate, e cerchiamo di capire perché.
Innanzitutto il bipolarismo non è più di moda in tante parti: si è dissolto tanto nella mitica Gran Bretagna quanto nella Germania unificata e anche negli USA non è che goda di ottima salute. In secondo luogo da noi si è in presenza di un fenomeno nuovo. La gran massa di astenuti priva quel tanto che esiste delle due polarità della possibilità di competere per guadagnarsi il cosiddetto “centro”: i maggiori partiti si restringono e si chiudono nelle rispettive riserve indiane, i cui membri rimangono fedeli quasi per scelta genetica (se cambiano lo fanno cambiando tribù ma rimanendo nella stessa area), il resto o si sparge fra piccoli partiti poco competitivi o si rifugia nell’astensionismo.
In questo momento assistiamo ad un rilancio quasi spasmodico della domanda di polarizzazione. Le truppe del militantismo ideologico della destra come della sinistra spingono per inasprire mitiche “identità” cioè per rafforzare gli steccati che dividono le parti. Lo si sta vedendo con l’avvento della Schlein alla segreteria del PD (basta un’occhiata a chi ha promosso in direzione come compagni di viaggio), altrettanto avviene con l’operazione decisa di Salvini che punta a costringere Meloni a rimanere intrappolata nella retorica della destra alternativa chiusa ad ogni dialogo.
È un vantaggio per il nostro paese? Ci permettiamo di dubitarne. La logica da tifoserie delle curve calcistiche che domina la comunicazione politica favorisce le componenti massimaliste delle due sponde e fa la fortuna dei predicatori televisivi, ma non è adatta ad affrontare i gravi problemi che abbiamo di fronte a noi. La ragione principale è abbastanza semplice da individuare: quando si devono affrontare situazioni complicate è indispensabile evitare tanto le divisioni che indeboliscono la forza di un corpo politico come è una nazione, quanto l’illusione che banalizzare i problemi favorisca la loro soluzione.
In astratto si dovrebbe concludere che in questa situazione a riprendere fiato e spazio dovrebbero essere quelle forze che vogliono collocarsi in ciò che si è definito il centro vitale. In concreto è tutto molto più complicato. Innanzitutto perché la battaglia contro i massimalismi in tempi di crisi epocale è molto difficile e richiederebbe risorse, intellettuali e politiche, che non sono così disponibili. In secondo luogo perché il clima di polarizzazione e radicalizzazione generale contagia anche le poche forze centriste che sono portate a credere che guadagneranno più spazio se anch’esse radicalizzeranno e renderanno massimaliste le loro aspirazioni.
Ciò che sarebbe necessario in questo momento è la liberazione delle forze riformiste che stanno in tutti i partiti per imporre un nuovo standard di dibattito pubblico. Che senso ha che le opposizioni sostengano Salvini nel suo tentativo di incatenare a destra la Meloni, anziché spingerla a proseguire su una via di recupero del realismo politico così come in parte stava facendo? Che senso ha favorire il movimentismo massimalista della Schlein per far perdere al PD quello che aveva guadagnato nel tentativo (veltroniano) di diventare un partito della nazione, facendolo sbrigativamente passare per “governismo”? Che senso ha mancare di impegnarsi nella ricostruzione di una cultura di dialettica costruttiva capace di riconoscere che bisogna costruire punti di incontro come si fece, tanto per citare una storia di cui moltissimi parlano senza conoscerla, ai tempi della Costituente e poi della Ricostruzione fino all’avventura del centro-sinistra di Moro, Fanfani e Nenni?
Le rivoluzioni culturali sono avventure difficili, controverse e che richiedono molto tempo e molto lavoro. Ma senza di esse non c’è nessuna nuova politica, nessuna “svolta”, nessuna primavera.
di Paolo Pombeni