I conti azzardati col futuro

Sempre condizionati dall’attesa della prova elettorale europea, i politici cercano di prospettarsi cosa potrà accadere nel futuro prossimo e meno prossimo. Il segno dominante dovrebbe essere quello dell’incertezza, ma poiché questo genera ansia e insicurezza ciascuno si immagina che siamo sul punto in cui la situazione volgerà a suo favore.
La destra ritiene di essere in posizione favorita. Sebbene i sondaggi a livello europeo siano incerti sul punto, cerca di dare per scontato che sarà possibile avere una nuova maggioranza in seno alla UE perché le destre aumenteranno i consensi. Esaminando la cosa con una certa freddezza la situazione rimane quantomeno incerta. Innanzitutto la crescita delle destre (e lasciamo stare le divisioni nel senso di questo campo) non può essere così travolgente da consentire un esecutivo a due, Partito Popolare più conservatori di vario conio, ammesso e non concesso che il PPE sarebbe disponibile ad una alleanza di questo tipo. Occorre un terzo membro che si pensa dovrebbero essere i “liberali”, ma qui entra in gioco Renew Europe di Macron che con l’elezione presidenziale francese fra un paio d’anni non ha nessun interesse a favorire un protagonismo di Marine Le Pen.
Si tenga anche conto che Macron gioca su due tavoli. La scelta del presidente della Commissione spetta dapprima al Consiglio Europeo, cioè all’assemblea dei capi di stato dei paesi membri, che poi la sottopongono al Parlamento europeo che deve dare la fiducia. Così il presidente francese sarà in posizione forte per incidere su questa scelta e potrà trovare sponde nel cancelliere tedesco e in altri capi di stato che sono poco inclini a favorire un successo delle destre.
Certamente in questo contesto Giorgia Meloni potrebbe giocare una partita peculiare: offrirsi come sostegno ad una soluzione di compromesso che senza mettere in discussione gli attuali equilibri le consenta il ruolo di “ponte” con le componenti ragionevoli dell’arcipelago delle destre. Anche in questo caso lei potrà sfruttare il suo essere membro del Consiglio Europeo.
Le opposizioni italiane appaiono invece più spaesate nel valutare i possibili scenari futuri a Bruxelles. Le loro divisioni interne non favoriscono la costruzione della loro partecipazione alla dialettica che si instaurerà fra PPE, socialisti e liberali, né hanno a disposizione personaggi con la statura necessaria per giocare un proprio ruolo al di fuori e al di sopra dei partiti. Pertanto si chiudono in una partita tutta italiana, con un po’ di tiritere su fascismo e antifascismo, qualche previsione catastrofica sull’andamento dell’economia, e una critica fin troppo facile ai molti pasticci che combina un governo dominato dall’ansia di mettere in campo comunicazioni accattivanti per questa e quella corporazione.
Non è che la maggioranza di destra mostri grande acume nel tenere conto delle incertezze di un futuro che non si preannuncia facile. Sul versante economico gli esperti richiamano l’attenzione alle difficoltà del sistema mondiale, rese complicate dalle guerre in corso ma non solo. Per non parlare della situazione dei nostri conti pubblici che richiederebbero qualche intervento strutturale, reso impossibile da anni di retorica contro la tassazione, per cui anche una modesta iniziativa per chiedere conto a chi si permette tenori di vita altissimi denunciando redditi da proletariato è visto come un sistema inquisitorio.
È abbastanza curioso che in questo caso la sinistra non abbia trovato il coraggio di difendere quella misura, impropriamente chiamata “redditometro” (che era un altro tipo di strumento, quello sì abbastanza bizzarro), mentre continua giustamente a chiedere fondi per la sanità e altri servizi pubblici, fondi che bisogna pur trovare (il generico, eterno richiamo astratto alla lotta all’evasione è poco credibile se poi non c’è il coraggio di sostenere un intervento minimo come quello proposto dal sottosegretario Leo).
Polarizzare tutto su qualche provvedimento bandierina serve solo ad indebolire la coesione del paese. Così l’aver trasformato il dibattito sul premierato nella ossessione di andare allo scontro referendario ci sembra una scelta senza senso. La proposta di legge è claudicante nella sua formulazione, ma vorrebbe affrontare un problema reale, cioè uscire da un sistema che si è impantanato nelle possibilità di garantire a chi governa colpi di mano coi decreti legge, e all’opposizione poteri di veto sfruttando le lungaggini parlamentari. La volontà crescente di Meloni di farne una prova di forza nell’illusione di passare alla storia come una specie di novello De Gaulle italiano fa il paio con la cecità di quell’opposizione che pensa di tornare sulla cresta dell’onda presentandosi come la reincarnazione della Resistenza.
Il discorso può allargarsi a considerare la legislazione sulla autonomia regionale differenziata, che ha suscitato preoccupazioni anche nella Conferenza Episcopale Italiana. Anche qui si capisce bene che oltre diversi pasticci nel delineare competenze inutili a livello regionale (centinaia di ambiti, molti dei quali più di bandiera che altro, come quelli sulla scuola), a preoccupare è il messaggio che verrà da questa riforma: un incitamento alle più che presenti irresponsabilità di quadri politici locali a lanciarsi in avventure propagandistiche che poi si pagheranno a caro prezzo.
Tutto questo gioco senza costrutto avverrà nel contesto di un sistema internazionale che non si vede come uscirà dalle tensioni terribili a cui è sottoposto e di un sistema europeo che a sua volta non si trova nelle migliori condizioni. L’Italia ha bisogno di poter affrontare una contingenza storica complessa godendo di una almeno parziale solidità di consenso interno: una alleanza di forze che siano in grado di pensare non alle piccole sceneggiature ereditate dal passato delle ideologie in fase declinante, ma al destino comune del Paese. Magari anche con alcune personalità che si facciano carico di incarnare questa svolta.