Governo in Spagna: i dolori dei socialisti e le novità della politica spagnola
Dopo più di trecento giorni, la Spagna pone momentaneamente fine alla propria crisi politica. In una convulsa sessione di investitura tenutasi nel Parlamento lo scorso sabato, Mariano Rajoy, leader del Partido Popular (PP), è stato nominato Presidente del Gobierno per la secondo volta, dopo la vittoria con maggioranza assoluta del 2011. Questa volta, però, le cose saranno più complicate per il partito di maggioranza relativa che ha raggiunto il proprio obiettivo solo dopo una dolorosa astensione del Partido Socialista Obrero Español (PSOE). Dopo mesi di discussione, stretto fra l’incudine di un improbabile governo con Podemos appoggiato dagli independentisti e il martello di un rischioso sostegno al PP, il PSOE si conferma il partito dal quale continua a dipendere buona parte della politica spagnola. Ma il percorso per arrivare a questo punto è stato alquanto tortuoso al punto che i problemi non paiono essere finiti qui.
Dopo la seconda elezione generale dello scorso giugno, il leader del PSOE Pedro Sanchez aveva deciso di mantenere la propria posizione negativa nei confronti di Mariano Rajoy, confermando che “No es No!” alla possibilita’ di favorire un governo popolare. Si moltiplicavano però le resistenze interne nei confronti del segretario, personificate dalla Presidenta dell’Andalusia Susana Diaz e dallo storico leader Felipe Gonzalez. Il colpo di grazia per il segretario sono state le elezioni in Galizia e nei Paesi Baschi dello scorso settembre in cui il PSOE ha visto per l’ennesima volta negli ultimi cinque anni diminuire i propri consensi. Una rivolta interna di vari leaders locali del PSOE (i cosiddetti barones) ha prima costretto Sanchez alle dimissioni come segretario e ha poi traghettato il Comitato Federale del partito verso l’ accettazione dell’astensione al PP. In aperto dissenso con la decisione del partito, Sanchez ha annunciato sabato scorso le proprie dimissioni da deputato, non ha quindi partecipato alla sessione di investitura a Rajoy e ha in compenso lanciato la propria sfida per riprendersi la segreteria. La sua prima mossa da futuro candidato è stata l’annuncio della volontà di costruire un rapporto con Podemos che secondo l’ex segretario sarebbe ormai sbagliato definire “populista”. Dalla parte di Sanchez potrebbero esserci quei 15 deputati su 84 del gruppo parlamentare socialista che hanno deciso di saltare la disciplina di voto e mantenere il proprio NO a Rajoy. Altri si sono attenuti alla disciplina ma nel momento della votazione, che in Spagna avviene a voce, hanno chiarito come lo stessero facendo solo per indicazione del partito, pronunciando la polemica formula “por imperativo abstencion”.
La lotta nel PSOE ha origini profonde nelle quali si mescolano elementi ritrovabili in vari partiti socialdemocratici europei con le specificità del caso spagnolo. Sanchez è stato il primo leader del PSOE eletto attraverso il voto diretto dei militanti, circostanza che gli ha conferito una certa legittimità nei momenti di maggiore conflitto con il partito. Ma ha dovuto fronteggiare il potere di diversi presidenti di Comunità Autonome governate dal PSOE, uomini e donne di establishment, abili gestori di voti e iscritti. Nell’attuale Parlamento, per esempio, la federazione andalusa del PSOE conta ben 20 deputati sugli 84 totali (83 in seguito alle dimissioni di Sanchez). Si rinnova quindi quel conflitto presente in diversi partiti del centrosinistra europeo fra figure frutto della legittimazione diretta della militanza e una classe di dirigenti e funzionari che può tuttavia mettere in campo un ampio potere di resistenza. Con Sanchez potrebbero schierarsi però alcune delle federazioni socialiste maggiormente minacciate dalla forza elettorale di Podemos. Chi deve fronteggiare un Podemos elettoralmente forte sul proprio territorio è esposto a maggiori rischi di sparizione. In questo senso potrebbe spiegarsi il convinto NO a Rajoy dei socialisti catalani o baleari.
Due le dimensioni che vanno tenute da conto a questo punto. Da un lato ci si chiede come un partito così diviso come il PSOE potrà gestire il governo in minoranza del PP. Anche i leaders socialisti più convinti per l’astensione continuano pubblicamente a considerare Rajoy un pessimo presidente del governo. Il capogruppo nelle Cortes ha per esempio fatto precedere l’astensione del proprio gruppo da un difficile discorso nel quale si è affrettato ad elencare i “disastri del PP”, motivando l’astensione solo come una scelta obbligata per evitare una umiliante terza elezione. Viene quindi da chiedersi dove troverà il PP i voti per approvare la Legge di Stabilità che dovrà recepire i nuovi tagli imposti dalla Commissione Europea. Alcuni leaders locali del PSOE hanno annunciato che questa sarà la legislatura in cui le opposizioni avranno la possibilità di “smontare pezzo per pezzo” le riforme “neoliberali” di Rajoy. Ma è molto probabile che le funzioni di facilitatore del governo e di “principale partito di opposizione” entreranno ben presto in conflitto. L’immagine dell’incudine e il martello tornerà a materializzarsi. Il PP avrà buon gioco a fare pressione sui socialisti presentando le proprie leggi come “provvedimenti di responsabilità nazionale che ci chiede l’Europa e che non potete bloccare”, mentre Podemos potrà svolgere con relativa libertà il proprio ruolo di opposizione sia al PSOE che al PP gridando all’inciucio e al al tradimento dei valori della sinistra ogniqualvolta i due principali partiti dovranno cercare un’intesa.
Dall’altro lato, vi è la nuova situazione della politica spagnola. In un’epoca di volatilità e frammentazione elettorale che portano spesso a maggioranze instabili e parlamenti confusi, i partiti dovranno imparare a nuotare in un mare nuovo ma in via di consolidamento nel contesto spagnolo. Il dato infatti più interessante riguarda la chiara preferenza dell’elettorato per un sistema multipartitico. Trecento giorni senza governo, dibattiti parlamentari conclusisi in nulla di fatto, una dinamica interpartitica a tratti frustrante non sembrano scalfire la convinzione degli spagnoli sul fatto che il nuovo periodo di riforme, se mai vedrà la luce, dovrà essere condiviso, frutto della mediazione fra forze diverse e senza maggioranze assolute. La percentuale di chi preferisce il multipartitismo è superiore al 60% mentre il bipartitismo ispira nostalgia soprattutto nelle fila del PP e in alcuni settori tradizionali del PSOE. Si tratta del riflesso di una popolazione stanca di 40 anni di un bipartitismo percepito come efficiente ma al contempo piuttosto arido, e desiderosa di analizzare opzioni alternative. Malignamente, dall’Italia, si potrebbe osservare che si stancheranno presto, ma per il momento questo non è dato sapere.
* Andrea Betti (Ph.D Relazioni Internazionali, Universitá di Trento)
di Paolo Pombeni
di Bernardo Settembrini *