Gnossiennes
Fonte: “MeS”, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
Se si volesse adottare una colonna sonora per una pièce teatrale che rappresenti il periodo pandemico in atto, la scelta potrebbe opportunamente cadere su “Gnossiennes”: sei brani da Erik Satie costruiti nell’irriverenza formale del canone musicale, nell’allusione al mistero della “conoscenza superiore”, oppure, secondo una accreditata interpretazione critica un po’ osé, al mito di “Teseo, Arianna e Minotauro”. Il loro ascolto suggerisce una straordinaria ambiguità assimilabile alla sensazione percepita nel revisionare i dati d’ordine sanitario, pervenuti da varie fonti e assai convergenti, sulle vicende emergenziali attuali.
Sebbene la percentuale di vaccinati in Italia (12.85%) risulti analoga a Francia (13.64%), Spagna (12.6%) e Germania (11.98%), il tasso di mortalità nostrana svetta sopra le altre in modo lampante: nell’ultima settimana si registrano, per milione di abitanti, nel nostro Paese 6.78 vittime, in Francia 4.06, in Spagna 1.85, in Germania 1.46. Questi dati portano a pensare che la mortalità va ad assumere un peso in Italia 4.6 volte maggiore rispetto a quella dei popoli tedeschi, 3.5 volte degli spagnoli e 1.6 volte dei francesi. Senza considerare che la Lombardia continua a distinguersi per il picco di decessi che superano i 9 giornalieri per milione di abitanti (fonte: www.ourworldindata.org https://statistichecoronavirus.it/continenti/coronavirus-europa/).
Evidentemente la spiegazione di tanto divario non risiede, sebbene sia importante, nella quantità di popolazione vaccinata, ma nei criteri di distribuzione e somministrazione del prodotto. Dal sito del Governo italiano (fonte: www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/). si apprende che circa il 40% dei vaccinati si trova nelle fasce di età fra i 20 anni e i 60 anni mentre l’87%
dei decessi riguarda le fasce di età comprese fra i 70 anni e i 90 anni.
Ma non basta: su circa 3 milioni di vaccinati, classificati e ammessi come “operatori sanitari”, cioè il 5% degli italiani di tutte le età, compresi i neonati, meno di 500 mila risultano davvero dipendenti dal Servizio sanitario. C’è da chiedersi a quali funzioni risultano addetti gli eccedenti e chi siano realmente coloro che sono stati catalogati come “altro”, i quali corrispondono ad oltre 2 milioni di persone non appartenenti né alle forze dell’ordine né alla scuola né all’esercito. Quali le ragioni alla base della avvenuta programmazione, che ora suscita molti dubbi, quali i criteri di priorità utilizzati dalle autorità regionali? Criteri dettati dalle statistiche e dal semplice buon senso avrebbero probabilmente evitato alcune migliaia di decessi, il prolungamento delle immani sofferenze sociali e l’affollamento pressante degli ospedali ormai divenuti quasi interamente anti-Covid!
Purtroppo, non basta ancora. I Servizi sanitari regionali, secondo un recente studio del “Laboratorio Management e Sanità (MeS)” della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, non hanno dato prova di efficienza organizzativa nel fronteggiare le malattie cronico-degenerative e neoplastiche a causa delle sospensioni delle attività diagnostico-terapeutiche e ai ritardi accumulati (superiori al 30-40% e con differenze regionali straordinarie, con punte di quasi il -70% in Lucania) nelle visite ambulatoriali, nell’esecuzione di esami di laboratorio e strumentali (-50%), anche della routinaria prevenzione secondaria di screening (mediamente -30%) e nella programmazione di interventi chirurgici con riduzioni che si aggirano mediamente attorno al -30% per le patologie importanti e al -100% per gli interventi differibili totalizzando un accumulo complessivo stimabile in oltre 600 mila interventi chirurgici rimasti in lista d’attesa e per lungo tempo vi resteranno.
Tre esempi indicativi: in media una donna su tre non ha potuto sottoporsi a screening mammografici registrando una elevata variabilità tra le venti Regioni. Nello studio “MeS” vengono segnalate le Regioni che hanno superato la media nazionale: la Sardegna -40,7%, la Calabria -39,4%, la Provincia autonoma di Trento -37,4%, la Liguria -36,5%, l’Abruzzo -35,6%, la Lombardia -35,4%, la Puglia -35,2%, il Lazio -33,6%, il Piemonte -32,4%, la Sicilia -32,2%; Sempre in ambito di prevenzione secondaria (diagnosi precoce) hanno subito significative riduzioni gli screening alla cervice uterina del -32% e del colon-retto del -35%.
Da segnalare che le contrazioni nelle prestazioni di diagnosi e cura, in genere, sono state registrate nonostante i bassi livelli di incidenza dell’infezione virale in Regioni come Sardegna, Calabria, Sicilia, Puglia, Lazio ed Abruzzo.
Sebbene ci si trovi in una fase pienamente emergenziale, a fronte di questi dati davvero allarmanti, corre obbligo ai Servizi sanitari regionali, in stretta collaborazione con le Istituzioni statali e in assenza di divaricazioni, come troppo spesso da tutti constatate, di organizzarsi per ripristinare al meglio e con urgenza estrema i Servizi sanitari regionali allo scopo di far fronte ai bisogni impellenti di Medicina preventiva e sociale e di diagnosi e cura, Inoltre, diviene cogente, irrinunciabile e improcrastinabile ripensare il prossimo futuro nella prospettiva realistica che la virosi non sparirà del tutto per lungo tempo, che con essa dovremo convivere e che l’Organizzazione sanitaria va assolutamente adeguata ai processi in atto e facilmente prevedibili nel merito con la massima urgenza e previdenza, compresa la disponibilità annuale ed universale dei vaccini.
* Già docente di Chirurgia Generale nell’Università di Bologna e direttore di Chirurgia generale negli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna
di Francesco Provinciali *
di Francesco Domenico Capizzi *