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17 aprile 2024
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Gnossiennes

Francesco Domenico Capizzi * - 17.04.2021
Satie - Gnossienne 1

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Fonte: “MeS”, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

 

Se si volesse adottare una colonna sonora per una pièce teatrale che rappresenti il periodo pandemico in atto, la scelta potrebbe opportunamente cadere su “Gnossiennes”: sei brani da Erik Satie costruiti nell’irriverenza formale del canone musicale, nell’allusione al mistero della “conoscenza superiore”, oppure, secondo una accreditata interpretazione critica un po’ osé, al mito di “TeseoArianna e Minotauro. Il loro ascolto suggerisce una straordinaria ambiguità assimilabile alla sensazione percepita nel revisionare i dati d’ordine sanitario, pervenuti da varie fonti e assai convergenti, sulle vicende emergenziali attuali.

Sebbene la percentuale di vaccinati in Italia (12.85%) risulti analoga a Francia (13.64%), Spagna (12.6%) e Germania (11.98%), il tasso di mortalità nostrana svetta sopra le altre in modo lampante: nell’ultima settimana si registrano, per milione di abitanti, nel nostro Paese 6.78 vittime, in Francia 4.06, in Spagna 1.85, in Germania 1.46. Questi dati portano a pensare che la mortalità va ad assumere un peso in Italia 4.6 volte maggiore rispetto a quella dei popoli tedeschi, 3.5 volte degli spagnoli e 1.6 volte dei francesi. Senza considerare che la Lombardia continua a distinguersi per il picco di decessi che superano i 9 giornalieri per milione di abitanti (fonte: www.ourworldindata.org https://statistichecoronavirus.it/continenti/coronavirus-europa/).

Evidentemente la spiegazione di tanto divario non risiede, sebbene sia importante, nella quantità di popolazione vaccinata, ma nei criteri di distribuzione e somministrazione del prodotto. Dal sito del Governo italiano (fonte: www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/). si apprende che circa il 40% dei vaccinati si trova nelle fasce di età fra i 20 anni e i 60 anni mentre l’87%   
dei decessi riguarda le fasce di età comprese fra i 70 anni e i 90 anni.

Ma non basta: su circa 3 milioni di vaccinati, classificati e ammessi come “operatori sanitari”, cioè il 5% degli italiani di tutte le età, compresi i neonati, meno di 500 mila risultano davvero dipendenti dal Servizio sanitario. C’è da chiedersi a quali funzioni risultano addetti gli eccedenti e chi siano realmente coloro che sono stati catalogati come “altro”, i quali corrispondono ad oltre 2 milioni di persone non appartenenti né alle forze dell’ordine né alla scuola né all’esercito. Quali le ragioni alla base della avvenuta programmazione, che ora suscita molti dubbi, quali i criteri di priorità utilizzati dalle autorità regionali? Criteri dettati dalle statistiche e dal semplice buon senso avrebbero probabilmente evitato alcune migliaia di decessi, il prolungamento delle immani sofferenze sociali e l’affollamento pressante degli ospedali ormai divenuti quasi interamente anti-Covid!

Purtroppo, non basta ancora. I Servizi sanitari regionali, secondo  un recente studio del “Laboratorio Management e Sanità (MeS)” della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, non hanno dato prova di efficienza organizzativa nel fronteggiare le malattie cronico-degenerative e neoplastiche a causa delle sospensioni delle attività diagnostico-terapeutiche e ai ritardi accumulati (superiori al 30-40% e con differenze regionali straordinarie, con punte di quasi il -70% in Lucania) nelle visite ambulatoriali, nell’esecuzione di esami di laboratorio e strumentali (-50%), anche della routinaria prevenzione secondaria di screening (mediamente -30%) e nella programmazione di interventi chirurgici con riduzioni che si aggirano mediamente attorno al -30% per le patologie importanti e al -100% per gli interventi differibili totalizzando un accumulo complessivo stimabile in oltre 600 mila interventi chirurgici rimasti in lista d’attesa e per lungo tempo vi resteranno.

Tre esempi indicativi: in media una donna su tre non ha potuto sottoporsi a screening mammografici registrando una elevata variabilità tra le venti Regioni. Nello studio “MeS” vengono segnalate le  Regioni che hanno superato la media nazionale: la Sardegna -40,7%, la Calabria -39,4%, la Provincia autonoma di Trento -37,4%, la Liguria -36,5%, l’Abruzzo -35,6%, la Lombardia -35,4%, la Puglia -35,2%, il Lazio -33,6%, il Piemonte -32,4%, la Sicilia -32,2%; Sempre in ambito di prevenzione secondaria (diagnosi precoce) hanno subito significative riduzioni gli screening alla cervice uterina del -32% e del colon-retto del -35%.
Da segnalare che le contrazioni nelle prestazioni di diagnosi e cura, in genere, sono state registrate nonostante i bassi livelli di incidenza dell’infezione virale in Regioni come Sardegna, Calabria, Sicilia, Puglia, Lazio ed Abruzzo.

Sebbene ci si trovi in una fase pienamente emergenziale, a fronte di questi dati davvero allarmanti, corre obbligo ai Servizi sanitari regionali, in stretta collaborazione con le Istituzioni statali e in assenza di divaricazioni, come troppo spesso da tutti constatate, di organizzarsi per ripristinare al meglio e con urgenza estrema i Servizi sanitari regionali allo scopo di far fronte ai bisogni impellenti di Medicina preventiva e sociale e di diagnosi e cura, Inoltre, diviene cogente, irrinunciabile e improcrastinabile  ripensare il prossimo futuro nella prospettiva realistica che la virosi non sparirà del tutto per lungo tempo, che con essa dovremo convivere e che l’Organizzazione sanitaria va assolutamente adeguata ai processi in atto e facilmente prevedibili nel merito con la massima urgenza e previdenza, compresa la disponibilità annuale ed universale dei vaccini.

 

 

 

 

* Già docente di Chirurgia Generale nell’Università di Bologna e direttore di Chirurgia generale negli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna