Genova, un anno dopo
Erano le 11.36 del 14 agosto dello scorso anno quando, mentre imperversava un forte temporale, accadde un fatto che resterà per sempre nella storia di Genova la “Superba” e nel cuore dei genovesi, cosi affezionati alla loro città, ristretta e allungata tra i monti e il mare, dove ogni metro di spazio te lo devi conquistare ed è un lusso da custodire.
Il ponte Morandi, un tratto autostradale sospeso nel vuoto che unisce il ponente ligure alla città e apre le porte del levante e del nord, crollò improvvisamente quasi al centro delle sue campate, mentre oltre trenta veicoli stavano attraversando quel punto, precipitando nel sottostante Rio Polcevera, causando 43 morti e spezzando il cuore della comunità locale e dell’intero Paese.
Prima di quella immane catastrofe, guardandolo da lontano quel ponte aveva un aspetto imponente e fragile al tempo stesso: le altissime volute delle campate, sorrette da piloni stretti, sovrastato dai manufatti di raccordo davano un senso di vuoto e una parvenza esile e quasi miracolosa al compito che doveva assolvere: sopportare un carico imponderabile e sempre più elevato e intenso. Negli ultimi anni c’erano state discussioni e polemiche: il ponte doveva essere abbattuto, sostituito, affiancato dalla Gronda che avrebbe unito il porto di Prà con lo svincolo per il nord, alcuni avevano sollevato dubbi e criticità anche accese. Qualcuno aveva sostenuto che sarebbe durato cent’anni, altri ne evidenziavano le fragilità, prevedendone una ulteriore durata ormai breve, appesa al filo delle manutenzioni non fatte e del traffico aumentato in modo incontenibile e intollerabile per quel manufatto che da oltre 50 anni era come un ampio abbraccio tra ponente e levante di Genova e della Liguria.
Entrare da est o da ovest e attraversarlo in auto era come percorrere una lunga pista scorrevole e scivolosa, usurata dal passaggio di milioni di veicoli di ogni tara e misura.
Ad un anno di distanza le indagini per accertare responsabilità ed omissioni vanno avanti tra carte bollate, audizioni, interrogatori, perizie tecniche, memorie depositate in cancelleria: ma la verità che tutti attendiamo di conoscere passerà inevitabilmente sotto la forca caudina di una giustizia attenta, magari apparentemente lenta ma si spera inesorabile. Giustizia e verità aiutano a superare i drammi esistenziali, a dare spiegazioni ai fatti, anche se il dolore per queste vicende resta incancellabile, non restituisce le vite umane spezzate.
La ferita, lacerante nei suoi risvolti umani, è ancora aperta e non sarà mai sanata, qui più del destino c’entrano l’imperizia e la negligenza umana, la sottovalutazione dell’usura del tempo e dell’abnorme e illimitato passaggio di mezzi, il pressapochismo del rinvio e dei “tappulli”, come li chiamano a Genova, tradotto in italiano: dei rattoppi, dei rimedi fatti male e con leggerezza, della sottostima del pericolo.
La politica, specie quella nazionale, non ci aveva evitato fin da subito siparietti speculativi, scambi di accuse sulle competenze, giudizi sommari, speculazioni basate su teoremi e illazioni non ancora suffragati da perizie e da prove, come avvitata in una sorta di ansia anticipatoria tesa a sostituire il ruolo della magistratura, tra ricerca del capro espiatorio e delle eventuali complicità.
Poi, lentamente, come accade in occasione di fenomeni sismici, calamità naturali, imperizie umane, trascuratezze quella politica è uscita di scena, portando via il ricordo di un selfie sotto quel ponte spezzato, come il vuoto di qualche dente cavato via da una bocca che non poteva più parlare.
Regione, Comune, Protezione civile, Vigili del Fuoco, forze dell’ordine, polizia municipale, servizi sociali si sono fatti carico del dopo: evacuare e abbattere le case sottostanti, trovare un alloggio agli sfollati, progettare la ricostruzione di un ponte nuovo: tra i suoi figli più illustri Genova ha l’orgoglio di annoverare l’architetto Renzo Piano, senatore a vita, conosciuto e stimato in tutto il mondo per le opere realizzate con ingegno e competenza professionale. A lui è stata affidata la parte architettonica e tecnica della ricostruzione, per alzare un ponte destinato a durare con la previsione di periodici e severi controlli, “fino a mille anni e oltre”.
Illuminato di notte tramite pannelli solari che raccoglieranno la luce diurna, lungo 1102 metri, struttura in acciaio senza stralli né tiranti, fasciato da 43 vele di luce (come le vittime) a 4 corsie più due di emergenza, piloni che rimandano alla prua di una nave, essenziale nel disegno ma fatto per resistere all’usura dei transiti e alle critiche dei saccenti del giorno dopo.
Affinché nulla sia più lasciato al caso o ad un “destino cinico e baro” che è invece dipeso solo dalla mano dell’uomo e dallo scaricabarile che accompagna in Italia la politica della progettazione e gestione delle opere pubbliche.
E così il giorno 25 giugno 2019, davanti alle autorità locali e ad una presenza di cittadini silente, muta e composta si è dato il via all’inizio dei lavori di edificazione del ponte, con la prima colata di 764 mc di calcestruzzo. Tre giorni dopo, alle ore 9.37 del 28 giugno, ciò che restava del ponte Morandi, come due monconi sospesi nel vuoto, è stato definitivamente demolito e rimosso.
Quel ponte deve rinascere, più forte, più aggiornato e solido nella struttura, sotto la guida di menti e di mani sapienti e responsabili e di periodici, severi collaudi.
Serve alla città per ripartire: Genova e i genovesi hanno dato prova di un civismo esemplare, li definiscono ‘mugugnoni’ ma sanno parlare quando serve e rimboccarsi le maniche per concretizzare un’idea di futuro a cui è legata la speranza che sia possibilmente migliore e che fatti come quello accaduto un anno fa non abbiano mai più a ripetersi.
La comunità si stringe attorno al ricordo delle vittime ma vuole dimostrare, con determinazione e orgoglio, di fare della memoria e del dolore due nobili ragioni per dare continuità alla vita, per restituire sicurezza a tutti coloro che riprenderanno a percorrere quel ponte.
* Ex dirigente ispettivo MIUR
di Luca Tentoni
di Francesco Provinciali *