Fra radical-populismo e voglia di centro
È abbastanza curioso notare come le cronache politiche si siano incentrate su due fenomeni agli antipodi fra loro: l’intemerata di Giorgia Meloni alla festa del suo partito che rilancia il radical-populismo (prontamente sostenuta dai suoi avversari che amano calvare le stesse onde) e il gran discutere dell’ipotetica rinascita o rifondazione di un “centro”, dibattito che al momento sembra interessare più i commentatori e qualche spezzone delle classi dirigenti che non l’elettorato.
La premier è apparsa una volta di più incapace di liberarsi dai panni del comiziante che deve imporsi in un mondo considerato ostile a prescindere e deciso ad emarginarla. Nonostante i riconoscimenti che riceve sul piano internazionale e non solo, anche da osservatori non legati alla sua parte politica, non riesce proprio a consolidare questa immagine ignorando le critiche che le piovono addosso assumendo la postura del leader che parla del suo programma e ignora le polemiche scontate dei suoi competitori. Brandire i numeri a suo favore come clave da battere sulle teste degli avversari non le giova, perché così facendo fa apparire cifre fondate come trovate da comizio, il che presso una parte del pubblico induce a pensare che abbia ragione chi le ritiene propaganda e non dati reali. Un approccio più distaccato l’aiuterebbe a farsi ascoltare anche fuori dall’area dei suoi fan.
È vero che è aiutata da una opposizione che puntando solo a demonizzarla parla a sua volta solo al circuito chiuso dei propri fedeli. Una maggiore considerazione della realtà gioverebbe a tutte le parti in causa. Prendiamo il caso della situazione socio-economica. Meloni esagera nel presentare i risultati del suo governo come una meraviglia della sua politica, ma altrettanto fa Schlein nel presentare un paese dove si fa fatica ad arrivare alla fine del mese. In realtà la situazione è molto spaccata: da un lato una quota di popolazione che, in modo più o meno agevole, riesce a conservare condizioni di vita buone o almeno accettabili, dal lato opposto una quota, non sappiamo stimare in che proporzione rispetto all’altra, che effettivamente è strangolata da redditi molto miseri e da un mercato che nei beni di consumo registra aumenti progressivi che marginalizzano e spesso tagliano fuori chi rientra in questa seconda quota.
Aizzare le due componenti l’una contro l’altra non è una buona politica da nessun punto di vista, anche se si presta bene a promuovere quella subcultura radical-populista che tanto piace a chi pensa che il futuro sia in un bipolarismo esasperato. Pare significativo che in questo contesto rinasca la voglia di avere una forza che per default si definisce di centro, ma che in realtà dovrebbe semplicemente essere una componente razionalmente contrapposta alle derive estremiste e dunque a favore di un riformismo maturo (e, se ci è consentito, di una politica che si faccia carico di tutti i problemi del paese, a partire da quelli di chi sta peggio, pur senza proporre di risolverli con le rivolte sociali).
Non è da oggi che si discute della opportunità di disporre di una simile terza via, ma sinora si era trattato più che altro, a parte qualche fantasiosa nostalgia per una DC idealizzata, di assistere ad imprese di singoli personaggi che hanno tentato di insediarsi mettendosi in alternativa ai due blocchi principali. Se si sommano i risultati dei partiti per lo più personali che hanno agito in quell’area si stima che essa copra fra l’8 e il 10% del corpo elettorale (non poco: siamo, tanto per dare un’idea, a livello di FI e Lega e quasi pari o comunque molto vicini a M5S).
Il fatto è che frammentata fra più soggetti e relegata al livello di piccoli club di professionisti della politica quell’area non produce risultati. Ecco allora la spinta di quella componente dei ceti dirigenti che è preoccupata della radicalizzazione attuale a trovare un “federatore” che faccia il miracolo di tenerla insieme e magari di allargarla. Al momento si tratta più di un’impresa a tavolino da parte di ambienti la cui capacità di muovere consenso popolare è quantomeno dubbia (e sorvoliamo sullo sport di inventarsi un federatore al giorno). Per questo si cerca di chiamare in causa “i cattolici” nella convinzione che la Chiesa abbia la capacità di mobilitare una base omogenea e di tenerla insieme attorno ad un progetto centrista.
Ci sono molti problemi a dare per scontato il successo di un simile approccio. Innanzitutto in una società laicizzata come la nostra si è persa la capacità della Chiesa di compattare i fedeli, o almeno la loro maggioranza, intorno ad un unico progetto politico: anzi per le gerarchie potrebbe essere sconsigliabile farlo per il rischio di mettere in crisi un “gregge” ormai ristretto che vede presenti sensibilità molto diverse. In secondo luogo c’è la visibile resistenza dei partiti a lasciar spazio ad una nuova aggregazione centrista: essa inevitabilmente eroderebbe consensi ad essi e li costringerebbe a cedere quote di potere. In più i partiti sono ancora da tanti punti di vista delle controparti della Chiesa come istituzione, sicché a questa non si sa quanto convenga mettersi in contrasto netto con loro, proprio dal punto di vista di tutelare le sue capacità di intervento a favore dei più deboli.
Insomma per quanto il radical-populismo sia un contesto poco attraente per il futuro di questo paese è ancora incerto capire se da questo si potrà uscire con la nascita di un nuovo soggetto politico attivo anche sul piano elettorale, o con una operazione di contrasto delle egemonie populiste nei partiti tradizionali quale si potrebbe ottenere promuovendo una rinascita delle culture politiche e di partecipazione che educhino le persone a distaccarsi dalla manipolazione dei canti di sirene che continuano ad attrarre naviganti verso probabili naufragi. Un dilemma non da poco.
di Paolo Pombeni