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01 maggio 2024
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Europa, Germania, Italia alla prova del coraggio

Francesco Cannatà * - 11.04.2020
I sonnambuli di Christopher Clark

“Qualcosa di utile alla mia patria ma dannoso all’Europa o qualcosa di utile all’Europa ma dannoso al genere umano, per me sarebbe un crimine”. Parole, scritte nel XVIII secolo da Montesquieu, da tenere presenti mentre un rabbioso dibattito lacera il nostro continente. La crisi che viviamo è un prisma dalle molte facce. Dal punto di vista sanitario una pandemia imparagonabile a quelle del passato, da nuovo volto a questioni antiche. Quella tra razionalità e irrazionalità. Quella tra vite umane da salvare e i costi della recessione. Quella tra autocrazie e diritti dei popoli. Infine quella tra la costruzione o la dissoluzione europea. Un’equazione che in Italia sembra dipendere solo dalla questione tedesca. O meglio dal suo eterno ritorno.
Il processo europeo di integrazione, non è stato altro che il costante tentativo di armonizzare “un sistema di distinzioni”.  Chi si occupa di relazioni internazionali deve onestamente riconoscere la storia europea come un susseguirsi di continuità e discontinuità. La vita delle nazioni e quella del continente è da sempre un intreccio tra fratture e linearità. A ciò si aggiunge il lungo “dissidio tra Germania ed Europa”, la “sua lontana preparazione” e il momento, ancora recente, della “sua terribile esplosione”. Anche questa discordia però non è altro che un fatto storico nato, cresciuto e morto come tale. Vi è invece chi tende a negare, nel bene come nel male, la realtà storica della Germania. Per farlo postula un carattere tedesco immutabile nel tempo e su questo cristallizza un punto di vista che dal XIX secolo oscilla tra ammirazione e paura.

Un sentimento che in un Italia esasperata dall’angoscia si sta trasformando in isteria.

Per esempio, l’affermazione che la Germania sia l’unica responsabile dello scoppio della I guerra mondiale è una semplificazione insostenibile. Il 100° anniversario del conflitto è stato contrassegnato non solo dal libro I sonnambuli di Christopher Clark ma da una molteplicità di opinioni che negano l’assolutizzazione della colpa tedesca. Chi si è spaventato del successo che il libro dello storico australiano ha avuto in Germania sembra partire dalla premessa che il paese, per non essere visto come un soggetto pericoloso, sia obbligato a mantenere un quadro negativo della propria storia.

Il Trattato di Versailles, lo strumento che ha posto fine alla prima guerra mondiale, è stato definito in vari modi. L’umiliazione come principio sembra essere quella più azzeccata. Oggi nessuno nega che il tentativo di eliminare con i diktat il demonio dalle vicende europee sia stato un clamoroso errore. L’ ordinamento giuridico sottoscritto il 29 giugno 1919 a Parigi si è rivelato un’illusione che non ha portato né stabilità né riconciliazione. Ugualmente, l’armistizio del novembre 1918 non ha messo fine alla violenza. Al contrario nell’Europa centrorientale devastata dalla guerra cominciava allora la lotta di tutti contro tutti per le frontiere dei nascenti Stati nazionali. Bestialità senza distinzioni tra civili e militari. Il ricordo di ciò è stato uno dei motivi del rapido allargamento a est dell’UE: portare prosperità economica per garantire stabilità politica. Un progetto realizzato alla meno peggio.

Sorprendentemente la fine della guerra fredda ha riaperto problemi che non rimandano al secondo conflitto, bensì al primo. Soprattutto non si è trovata ancora soluzione al crollo delle tre grandi istituzioni multinazionali e multi religiose che avevano dominato l’Europa sudorientale e il Medio Oriente: gli imperi asburgico, ottomano e russo.

 

E l’Italia? Cosa sperava il nostro paese dall’avanzamento della coesione europea? Scrive Giambattista Vico che la provvedenza per risolvere il gran malore della città ( … ) adopera tre rimedi. Il primo è l’arrivo del monarca natio capace dentro l’ordine naturale di mantenere i popoli contenti e soddisfatti della loro religione e della loro naturale libertà.
Nel caso in cui non si riesca a trovare il monarca locale, lo storicismo del filosofo napoletano afferma che la provvedenza se non truova sì fatto rimedio dentro, il va a cercar fuori… poiché chi non può governarsi da se, si lasci governare da altri che ‘l possa. Infine, se anche in questo caso la provvedenza fallisce, la città in preda a ostinatissime fazioni e disperate guerre civili diventerà una selva mentre gli ingegni arrugginiranno in secoli di barbarie.

 

È possibile che l’opinione pubblica italiana - per un momento la più europeista del continente - nel progetto europeo abbia cercato l’astuzia demiurgica della provvedenza vichiana? Che l’Europa sarebbe riuscita a trovare rimedi a mali del paese insuperabili con le sole forze nazionali?

 

In Italia “per la moneta unica si era diffuso un senso di intensa aspettativa( … ) tanto più fiducioso e in un certo senso legittimo in quanto esso era sostenuto dalle pubbliche dichiarazioni dei più qualificati e responsabili elementi della classe dirigente e del governo (…) Sin dalla sua nomina alla Presidenza, Carlo Azeglio Ciampi aveva saputo assumere l’aspetto di uomo nuovo”. La stampa gareggiava “nell’enunciare buoni propositi, accennando ad arditi impegni di riforma, facendo uso di un tono bonario in cui ricorrevano con particolare frequenza espressioni quali solidarietà sociale e rinnovamento”. La nuova fase si associava alla “speranza di un rinnovamento politico e sociale (…) di un profondo rinnovamento morale del nostro paese e soprattutto delle sue classi dirigenti”

 

Se a queste citazioni si sostituisce l’espressione moneta unica con quella di dopoguerra e al posto del nome di Carlo Azeglio Ciampi si mette quello di Vittorio Emanuele Orlando si ha quanto scrive Roberto Vivarelli nella Storia delle origini del fascismo (pp.46-70). Sbaglierò ma mi è sembrato che fosse sufficiente fare queste modifiche per comparare le attese di rinnovamento politico e morale tra l’Italia del primo dopoguerra e quella che attendeva con ansia il rinnovato monetario e politico. Naturalmente l’atmosfera della fine del primo conflitto mondiale non è quella dell’Italia attuale. Mancano la guerra, l’abitudine alla violenza, l’arditismo, la trincea, le folle di reduci e di mutilati. Manca soprattutto l’antipartito, la forza politica che mentre rinnega tutti i partiti, li completa. Finora chi si è posto quest’ultimo obiettivo ha fallito. Simile ad allora invece è oggi la delusione per non aver raggiunto i risultati anelati. Da quella insoddisfazione si è sviluppata una retorica utile a scaricare sugli altri i nostri fallimenti. Un umore che invece di chiedersi cosa noi dobbiamo fare per il nostro paese solletica forme a tratti meschine di autocommiserazione. Nel caso sotto i nostri occhi, la Germania e i paesi del nord Europa sono diventati il capro espiatorio, causa e origine dei nostri guai. Ma alla cura dei nostri mali possiamo provvedere solo noi italiani.

 

Se la Germania contribuisce meno di quanto potrebbe allo sviluppo economico dell’area euro le conseguenze di questo atteggiamento, il mostruoso attivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente, ricadono anche sulle spalle dei propri cittadini. Un’ostinazione, quella di Berlino, inspiegabile per molti europei ma comprensibile conoscendo il passato del paese e il suo attuale trend d’invecchiamento demografico. Altri invece crede possibile che il paese possa usare la propria forza economica per condizionare le scelte del continente. Spetterà alle classi dirigenti tedesche scegliere. Ma il vero bivio davanti cui si trova oggi l’Europa sta nella sua capacità di darsi, o meno, un futuro politico. Avranno le leadership nazionali il coraggio, la fantasia, il talento e la forza per scalare questa vetta? In caso contrario l’animale totalitario è dietro l’angolo in attesa del momento. Come sempre per proliferare e diffondersi la belva ha bisogno di anarchia e disintegrazione intellettuale.

 

Nel romanzo dello scrittore russo Vladimir Nabokov, Pnin, il protagonista vuole allontanare dai propri pensieri il suo primo amore, una ragazza uccisa con una iniezione di fenolo al cuore in un campo di sterminio. "Impossibile vivere con un pensiero simile" afferma. In un mondo che aveva reso possibile quella morte, nemmeno la coscienza poteva continuare a esistere. L’unica cosa da fare era dimenticare. Una strada impossibile da percorrere e inammissibile da indicare.





* Dottore di ricerca in Storia dell’Europa orientale e autore di Nel Cuore d’Europa, Textus 2019.