Euro ed UE: un anno di tregua
Il sofferto via libera della Commissione Ue alla manovra finanziaria italiana per il 2019 è arrivato dopo estenuanti trattative e con costi molto alti per il bel paese. Il peso maggiore finora pagato è quello dovuto allo spread salito da circa 120 punti prima delle elezioni del 4 marzo agli oltre 320 dei giorni di maggiore tensione della trattativa con le autorità europee a novembre. Si tratta di un aggravio dei conti pubblici che si aggira intorno ai 3 miliardi l’anno ma che potrebbe salire a cifre ben più alte, se lo spread non ritornasse verso quota 100 abbastanza velocemente. La manovra ha comunque dimostrato che il governo non intende né oggi né in futuro rompere con UE ed euro. Ed è forse questo il segnale un po’ rasserenante per i cittadini italiani e per i “mercati”. Questi ultimi, non dimentichiamolo, non sono un’entità globale lontana e minacciosa, come qualcuno nel governo crede, ma sono cuciti anche nei portafogli degli italiani. Le cui scelte di investimento finanziario, o più semplicemente di risparmio, hanno un peso non indifferente nella determinazione dello spread. Lo abbiamo visto in occasione di una asta di BTP di alcune settimane fa riservata ai risparmiatori italiani il cui insuccesso ha dato un segnale particolarmente negativo ai mercati e ha spinto in alto lo spread. Se, come in Giappone, i cittadini, italiani finanziassero senza riserve le politiche pubbliche decise dai loro governi il risparmio del bel paese avrebbe la forza e la stazza per annullare lo spread. Ma non abbiamo capitale Tokyo. I nostri cittadini votano per un governo che espande la spesa pubblica corrente come quello Lega-5 Stelle ma poi non sono molto inclini a prestare il loro risparmio a sostegno di queste politiche. Questa dissonanza tra voto con il portafoglio e voto nell’urna è la prima fonte di instabilità dei conti pubblici italiani. L’aspetto positivo è che la nostra appartenenza all’Europa è anche un modo per ridurre questa distanza e in questo senso è senza dubbio benefica. Per questo il consenso dell’Europa seppur vigile e attento si riflette positivamente in maggiore coesione interna e in una tregua nella fuga del risparmio. L’Ue è come un genitore che dopo lunghe insistenze e dopo avere concordato l’orario di rientro e la quantità massima di alcolici dà permesso e chiavi dell’auto al figlio per uscire il sabato sera. Il governo italiano, come il giovanotto gaudente, deve sapere restare entro i limiti stabiliti e soprattutto avere un comportamento responsabile. In mancanza di questo il patto serve poco e i pericoli di andare a sbattere rimangono. Ad esempio, come delineare nei dettagli quota 100 e soprattutto come facilitare le nuove assunzioni? Il dubbio riguarda soprattutto il mercato del lavoro giovanile. C’è una domanda di lavoro delle imprese inevasa perché non ci sono disponibilità e professionalità nei giovani per quasi mezzo milione di posti. Il che è dovuto in parte al sistema dell’istruzione scolastica, non tanto per ciò che si insegna ma per la difficoltà ad orientare verso profili più richiesti. Ma poi giocano un ruolo anche i bassi salari che spesso allontanano i giovani non extracomunitari e la scarsa disponibilità delle imprese ad investire nella formazione di capitale umano. In queste condizioni difficilmente quota 100 farà aumentare gli occupati quanto sperato. E poi come affrontare la novità del reddito di cittadinanza? A parte la definizione esatta delle cifre ancora sconosciute nei dettagli, resta comunque l’effetto sulla offerta di lavoro da parte di giovani e meno giovani che potrebbe accrescere il numero di posti scoperti in quanto in diverse regioni d’Italia, non solo al Sud, il lavoro nero diventa una alternativa allettante rispetto ad esempio, ad un lavoro lontano da casa e mal pagato. Inoltre ci saranno centri per l’impiego che saranno in grado di proporre posti di lavoro. Ma in molti altri questo non avverrà come la realtà presente mostra. In ogni caso se si investisse in maniera intelligente nei centri per l’impiego rendendoli funzionanti questo sarebbe un risultato positivo anche in proiezione futura. Insomma il governo dovrà lavorare ancora molto per evitare che le sue stesse scelte si rivelino fallimentari e che tra qualche mese il bel paese sia di nuovo nella tempesta finanziaria.
E sul fronte Ue cosa si può migliorare? Visti i problemi con l’Italia e quelli che verranno per la Francia dovrebbe iniziare una seria rimodulazione del fiscal compact (forse buttandolo del tutto) e del Trattato di Maastricht. In che modo? Una prima strada dovrebbe essere quella più volte sollecita su queste colonne di riconsiderare la definizione del debito pubblico che rileva per le autorità europee e ovviamente per i mercati che ne seguono i dettami. Il debito pubblico con cui ora siamo obbligati a misurarci è quello lordo in cui sono contenute ad esempio le risorse che abbiamo conferito all’ESM (meccanismo di stabilizzazione europeo) e quelle prestate ad altri partner euro nelle fasi più delicate della grande recessione iniziata nel 2008. Se potessimo invece considerare il debito pubblico netto queste cifre scomparirebbero e avremmo una definizione finanziaria più corretta. E oltretutto non saremmo obbligati a intraprendere privatizzazioni scriteriate solo per far cassa. L’Ocde (e anche la americana CIA!) pubblica sia il dato del debito pubblico lordo che quello netto. Quest’ultimo per l’Italia è attorno a 1.13 volte il Pil. E anche per gli altri paesi è inferiore a quello lordo. Una considerazione di questo parametro non va contro le buone pratiche finanziarie, al contrario. Le grandezze nette sono sempre più fedeli alla realtà dei fatti. E in più con questo si renderebbero le politiche fiscali più flessibili e gli obiettivi di abbattimento del debito pubblico più credibili.
di Gianpaolo Rossini
di Francesco Provinciali *