Eroi o caduti sul lavoro?
Uno dei dati più sorprendenti tra i tanti che ci troviamo ad analizzare in questi giorni è l’elevato numero di decessi tra i medici e il personale sanitario. Il ruolo di prima linea che svolgono nel contrastare il virus ha indotto molti osservatori e tutta l’opinione pubblica a considerarli degli eroi, proprio perché nello svolgere la loro indispensabile attività mettono a rischio la propria vita. Credo però che, al di là del grande apprezzamento sociale e della giusta gratitudine che viene veicolata dall’idea di eroismo, questa prospettiva ci impedisca di vedere con chiarezza cosa sta dietro il numero elevato di decessi.
Per definizione l’eroismo è un atto unico, istintivo, improvviso, non programmato, individuale o di piccolo gruppo che, in situazioni particolari, può esprimersi in diverse condizioni. Noi in realtà stiamo parlando di miglia di professionisti che tutte le mattine si alzano per andare al lavoro negli ospedali o negli ambulatori, non certo con l’idea di non tornare a casa la sera, e che invece in questo periodo muoiono in misura consistente e sorprendente. In condizioni normali, cioè prima del coronavirus, il tasso di mortalità sul lavoro di questi professionisti, era decisamente basso, soprattutto se rapportato a quello di altre categorie professionali come gli agricoltori, gli operai edili, gli autotrasportatori e gli operai della manifattura.
Se vogliamo apprendere qualcosa da quanto è successo e sta succedendo credo sarebbe più produttivo considerali a tutti gli effetti caduti sul lavoro. Dagli atti di eroismo, qualunque essi siano e in qualunque circostanza si verifichino, non si apprende niente se non che esistono eccezionalmente persone pronte a sacrificare la loro vita per salvare quella degli altri.
Tra l’eroe e il caduto sul lavoro c’è una differenza di fondo: il caduto sul lavoro muore non per scelta volontaria, impulsiva, occasionale bensì perché le condizioni di lavoro, latamente intese, a partire proprio dall’organizzazione del lavoro, favoriscono il verificarsi di infortuni e incidenti, anche mortali. Questo tema viene affrontato da anni con riferimento alle categorie professionali più esposte a questi rischi e tutte le ricerche hanno sempre messo in evidenza che le condizioni organizzative giocano un ruolo fondamentale nel definire il grado di sicurezza di ciascuna prestazione lavorativa, tanto è vero che la normativa sulla sicurezza sul lavoro nelle fabbriche e nei cantieri è ormai piuttosto stringente anche se non sempre rispettata.
Ora, al di là di tutto e nella piena consapevolezza che non è certo questo il momento di ricercare colpevoli e/o capri espiatori, è altrettanto evidente che qualcosa non ha funzionato nel contrasto alla diffusione del virus. Però, se è vero che si può e si deve apprendere anche e soprattutto dagli errori commessi, bisogna saper analizzare con lucidità quanto è accaduto e quanto di quello che è accaduto è frutto non di colpe o negligenze dei singoli ma dell’organizzazione (sanitaria) che istituzionalmente è preposta a contrastare fenomeni di questa natura.
Dalla mia esperienza di studioso di organizzazione, ma anche di consulente (in metafora una sorta di medico delle organizzazioni) mi permetto di evidenziare alcune questioni (tipicamente organizzative appunto) sulle quali richiamare l’attenzione di tutti coloro che a vari livelli e con diversi ruoli, nel prossimo futuro saranno chiamati a ripensare le modalità con le quali è stata affrontata l’epidemia per rimediare agli errori (organizzativi) che hanno impedito di contrastarla con maggiore efficienza ed efficacia. Vado per punti, o meglio spunti, senza alcun ordine di priorità o consequenzialità logica.
Primo punto: i criteri di specializzazione.
La nostra medicina si basa su due diversi criteri di specializzazione intesi proprio come criteri di divisione del lavoro. Il primo è quello che distingue tra medici di base e medici ospedalieri. Il secondo, che vale per gli ospedalieri ma non solo, distingue i ruoli sulla base di specialità disciplinari centrate prevalentemente sull’attenzione ad alcuni organi, alcune patologie, alcune funzioni fisiologiche essenziali. Sappiamo che il grado di specializzazione di questo secondo tipo è cresciuto enormemente in questi ultimi anni tanto che molti lamentano che l’eccessiva specializzazione fa perdere di vista l’insieme delle condizioni del paziente. Questione di grande complessità epistemologica ma emerge spontanea una domanda, almeno stando ai dati di cronaca: perché nonostante le numerose specialità mediche che si occupano dei problemi delle vie respiratorie ad accorgersi della particolarità della polmonite da corona virus sono stati in Cina un oculista, poi deceduto, e a Codogno un’anestesista?
Secondo punto: i protocolli
La risposta data alla domanda di cui sopra da un autorevole medico del Sacco di Milano è che i sintomi non rientravano nei protocolli previsti per casi di questa natura. La questione dei protocolli, in medicina come altrove, è estremamente delicata. Da un lato il protocollo semplifica enormemente i processi di diagnosi e di terapia diffondendo conoscenze, esperienze e pratiche a tutto il sistema sanitario. Dall’altro lato però i protocolli sono delle gabbie cognitive che impediscono di cogliere la portata anche di piccole anomalie rispetto a quanto previsto dal protocollo stesso. In molti casi il protocollo induce un comportamento quasi pavloviano di stimolo-risposta che, se può funzionare in molti casi, in altri diventa oltremodo pericoloso o inefficace per il paziente ma, nel caso di virus aggressivi, anche per i medici e per tutti coloro che gli stanno attorno favorendo la diffusione del virus come certamente è avvenuto in questa occasione.
Terzo punto: ospedali e pronto soccorso
Nella nostra ormai consolidata tradizione sanitaria vale un principio organizzativo molto semplice: il paziente che si crede grave o è considerato tale dal medico di base viene inviato al pronto soccorso, eventualmente ricoverato in medicina d’urgenza e poi affidato alle cure del reparto ospedaliero specializzato per trattare la sua patologia. E’ evidente a tutti, e i casi soprattutto della Lombardia (ma anche della Cina) lo dimostrano, che nel caso di infezioni virali e di malattie infettive questo è un modo certo per dare una prima rapida diffusione al virus e al contagiamento del personale ospedaliero. Ci sono volute settimane, e non è avvenuto dappertutto, per avere le tende di triage dedicate esclusivamente ai soggetti in odore di essere positivi e per separare i percorsi di ricovero.
Quarto punto: dotazioni di sicurezza
In quasi tutte le attività lavorative sono fondamentali le dotazioni di sicurezza individuale che servono a proteggere il più possibili i lavoratori da infortuni, incidenti, ma anche dall’emergere delle cosiddette malattie professionali. Dobbiamo constatare che queste dotazioni di sicurezza non erano a disposizione del personale sanitario con particolare riferimento ai medici di base. E’ vero che con la globalizzazione non produciamo più in Italia queste dotazioni, ma è anche vero che prima della crisi si trovavano sul mercato a prezzi assolutamente contenuti. Una scorta minima per garantire l’immediata tutela degli operatori avrebbe avuto costi bassi per il sistema sanitario, ampiamente ripagati tra l’altro dall’immediato contenimento del contagio. Dal momento che molti osservatori ci dicono, così come le serie storiche, che anche in futuro avremo a che fare con i virus, sarà il caso di programmare una dotazione base di dotazioni di sicurezza oppure un accesso rapido e garantito ai produttori ovunque essi siano, almeno per coloro che si troveranno ad affrontare i primi contati con nuove epidemie.
Quinto punto: i modelli organizzativi di sanità pubblica
Sappiamo che i modelli organizzativi di sanità pubblica variano, anche sensibilmente, da regione a regione anche perché la sanità è la principale competenza delle regioni che su questo impegnano circa l’80% del loro bilancio. Con il tempo avremo modo di verificare dati alla mano se un modello è stato più efficace di un altro nel contrastare il virus. Al momento andrebbero però evitate le contrapposizione ideologiche tra chi spinge per un accentramento della sanità e che invece reclama ancora maggiore autonomia regionale. E’ evidente che è meglio che alcune dimensioni e alcune scelte siano nazionali, ma è altrettanto evidente che il presidio regionale consente di tener conto delle specificità territoriali in tempi più rapidi e con soluzioni più calibrate sul contesto specifico. Comunque il tema dell’assetto istituzionale della sanità pubblica è un altro dei temi che andrà affrontato nel prossimo futuro.
In conclusione credo che un confronto sereno e qualificato tra diverse discipline che possono dare un contributo ad affrontare i temi che ho sollevato potranno metterci nelle condizioni di affrontare prossime evenienze simili con maggiore professionalità, migliore organizzazione, maggiore sicurezza, senza dover fare appello all’eroismo dei singoli.
* E' stato docente universitario di Teoria delle organizzazioni. Il suo blog è ww.stefanozan.it
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