Emergenza COVID-19 e trasformazioni della politica
Le recenti dichiarazioni di Mario Draghi sullo stato di emergenza attuale e futuro si soffermano sulle parole “solidarietà”, “protezione delle persone” spostandone forse l’orizzonte dopo un lungo decennio di crisi congiunte. La possibilità degli Stati europei di ricorrere ad emissioni del proprio debito pubblico (per un periodo probabilmente più indefinito rispetto ai tempi di una ricostruzione post-bellica) imporrebbe naturalmente un salto di mentalità. O forse un passo indietro: alla ricerca di un modello perduto ma pur sempre “storicamente” europeo, quale quello fondato sul compromesso sociale e l’intervento pubblico. Ben si sa come, sia nella teoria che nella prassi politica, il dibattito su ruolo e copertura della protezione sociale negli ultimi decenni è stato gradualmente abbandonato a favore di quello sul debito pubblico. In Europa la politica, intesa come spazio decisionale pubblico, ha parallelamente lasciato il passo alle “politiche”, intese come direttive economiche ed adeguamenti finanziari su scala internazionale. Attualmente, come il corollario silenzioso alle parole dell’ex Presidente della BCE suggerisce, sembra necessario traslare una dimensione pubblica e democratica, a presidio di diritti e giustizia sociale, sul piano sovranazionale. Il rinnovato interesse nella politica, specialmente in relazione all’ambito europeo, porta con sé l’esigenza di un approfondimento in tempi di pandemia. La domanda che emerge è: che tipo di politica, con quale democrazia, muoverà il mondo in generale e l’Europa in particolare a emergenza finita? Se si assume che il campo operativo per eccellenza di una politica democratica è il crinale tra i diritti essenziali dei suoi cittadini ed uno stato di crisi, l’attualità si pone come un periodo di potenziale transizione storica.
In via preliminare una politica forte, capace di agire rapidamente e con obiettivi chiari, pare la sola adeguata risposta alle situazioni d’emergenza. La diffusione del coronavirus, un’emergenza in quanto tale e data la natura interconnessa del mondo globale e le strutture materiali sulle quali questo si è organizzato, sembra esaminare tale prova di forza della politica. Dopo una prima fase di incomprensione circa la portata del fenomeno Covid-19 e/o generale lassismo, l’eccezionalismo di potere determinatosi, nelle sue soluzioni e nelle sue risposte concrete, ha incontrato vecchie pratiche e “tentazioni” per confrontarsi con la crisi. Le prime maldestre ed inumane ragioni hanno riportato in auge istanze biopolitiche, per le quali il cittadino visto esclusivamente nella sua unità corporea e non nella sua complessità pubblica ha un valore essenzialmente materiale. Le più contingenti scelte di governare per decreti dribblano la mediazione parlamentare, chiedendo talvolta deleghe alla giurisprudenza (l’Italia è priva di una disciplina costituzionale d’emergenza ad esempio). Un'altra sfida alla politica, che in tempi di pandemia sa di “tentazione nuova”, è posta dai sistemi di controllo digitale. Il rapporto tra la politica e la biotecnologia digitale era già ampiamente presente nel dibattito pubblico degli ultimi tempi, anche se l’emergenza coronavirus ne accelera l’attualità. Il “modello coreano” di gestione della crisi con l’utilizzo dei Big Data, la cui piena realizzazione appare auspicabile anche in Italia, dovrebbe tuttavia ricordare il divario tecnologico, e nella tecnica di potere, tra le realtà “orientali” e quelle del Vecchio continente, con tutto il portato di rischio legato a sfide asimmetriche nel cyber-spazio. Oltre ad una linea di governo dei dati che vede le due realtà in posizioni opposte. La questione oggi è dibattuta tanto in termini di diritti, posta ancora la libertà che rende autentica la politica democratica. Se la crisi ne giustifica una parziale cessione, lo storico Y.N Harari sulle colonne del Financial Times ha recentemente messo in guardia dalla possibilità di prorogare le misure straordinarie da una contingenza all’altra, una volta incorporate queste in una pratica di potere. Il rischio, senza un’adeguata governance, che dalla tutela dei diritti responsabilizzi la politica europea tutta è quello di ritrovarsi a comprendere, come il Winston Smith orwelliano, che il volume dei teleschermi adiacenti al suo appartamento si può abbassare, ma non spegnere completamente.
Di fronte a tutto ciò il rischio che la politica ne perda in qualità democratica appare evidente, anche alla luce del fatto che la “straordinarietà” di potere possa perdurare, lasciando meno margine alla composizione di uno spazio civico, realmente politico e presidio della democrazia. L’emergenza coronavirus può esser emblematica di nuove sfide di dimensioni compiutamente globali, con le quali la politica dovrà fare i conti nel futuro prossimo. Nel breve periodo, nel Vecchio continente si potrebbe declinare, e stando al parere dei più si declinerà, in una crisi economica importante. In relazione a ciò risulta necessaria una risposta il più possibile pubblica, anche perché comune è la sfida. L’affermazione di una politica democratica, che rafforzi il corpus dei diritti essenziali, tutela e giustizia sociale a “protezione delle persone” appunto, al livello internazionale è anche una questione di sopravvivenza per l’Europa stessa. Nello spazio nazionale di rottura del compromesso sociale tra politica e cittadini troverebbe altresì ancor più campo l’antipolitica europea.
Tratteggiare i contorni di un fenomeno storico recente è esercizio complesso e per pochi, figuriamoci prevederne l’andamento quando è in pieno svolgimento. Non è né capacità né intenzione di chi scrive, consapevole che ora la vera criticità divide l’umanità secondo un margine ben più profondo. La “solidarietà” invocata da Draghi e riscontrabile su più livelli della vita pubblica, potrebbe però spezzarsi col progredire della pandemia, alla paura potrebbe subentrare rassegnazione, per alcuni, risentimento per altri. Proprio per questo appare sin da oggi decisiva la risposta di una politica con rinnovato slancio democratico, soprattutto a livello internazionale. L’idea di ripensare la “protezione delle persone” porta necessariamente al recupero della politica intesa come spazio pubblico e comune di decisione e dell’indiscutibile importanza della cooperazione internazionale. L’umanità, come gli eserciti in una campagna, procede al passo del più lento, rifletteva il protagonista di un fortunato romanzo di Gabriel Garcia Marquez, nelle regioni equatoriali infestate dal morbo del colera. Dal momento che si rintraccia nella “guerra” l’immagine più rappresentativa dei nostri giorni, forse è proprio il passo del più lento che va aspettato.
*Dottorando in Beni Culturali e Ambientali, Università di Bologna, Campus di Ravenna
di Paolo Pombeni
di Stefano Zan *
di Michele Amicucci *