Effetto spaesamento
E’ curioso: dopo aver tanto spinto per sostenere la crescita di sentimenti populisti, dopo aver lavorato ad incrinare, se non a distruggere conoscenze appropriate sui meccanismi della democrazia costituzionale, adesso tutta una serie di personaggi si straccia le vesti per il “connubio” fra la Lega e i Cinque Stelle. Nessuno ricorda che questo genere di alleanze giudicate spiazzanti sono già avvenute e hanno già suscitato apprensioni nella storia del nostro paese: da Cavour che le faceva con la sinistra piemontese-sabauda ad Andreotti che le denunciava quando era in vista l’apertura ai socialisti dispiacendo ai vescovi di allora, i quali, secondo l’uomo politico dc, “non ci avevano allevato per questo”.
Il fatto è che la politica non si governa dandole la linea dall’esterno. Bismarck, che se ne intendeva, aveva come motto unda fert nec regitur, l’onda ti porta, ma non lo puoi governare indirizzandola dove vuoi tu. Coloro che hanno scatenato l’ondata populista potrebbero meditarci sopra.
Succede infatti che dopo avere proclamato che “il popolo” decide tutto e che il popolo è rappresentato da una parte di elettori, i cui eletti magari sono stati designati con un numero non esattamente cospicuo di clic su una tastiera, diventa difficile immaginarsi che i beneficiati da questo clima corrano col cappello in mano a chiedere lumi ai loro autoproclamatisi sponsor. Vogliono fare da soli e sanno benissimo che a logica della retorica con cui li hanno incoronati “vincitori” possono farlo. Perché del resto dovrebbero farsi sfilare la “vittoria” per compiacere i nuovi grilli parlanti, che, fra il resto, sono assai meno saggi di quelli del tempo di Pinocchio.
Adesso sembra andare di moda la tesi del “vediamo come se la caveranno” col sottinteso che andranno a sbattere. A confortare quelli che la pensano così c’è il caso della Roma di Virginia Raggi, dove non ci vuole nessuno sforzo per parlare di esibizione dell’incompetenza e della vacuità. Una piccola riflessione potrebbe però spingere a chiedersi come mai la stessa cosa non si possa dire di Torino, che ha i suoi guai, ma non più di qualsiasi altro comune italiano guidato da chicchessia. Ci vuol poco a capire che alla radice della differenza non c’è solo una caratura diversa dei sindaci (che c’è, e sarebbe bene non dimenticarlo), ma soprattutto una situazione diversa del contesto antropologico-amministrativo in cui versano le due città. Perché contare su una burocrazia capace fa la differenza, oltre che disporre di una cittadinanza che ha o non ha, in termini generali si capisce, il senso della cosa pubblica.
I due aspetti non vanno separati, se ci trasportiamo al livello del governo nazionale. Il sistema istituzionale-amministrativo non sarà uno splendore, ma non è neppure una catastrofe. Nei ministeri, nelle grandi strutture (tipo Banca d’Italia), per non parlare della presidenza della Repubblica c’è un personale di qualità che ha le competenze per mandare avanti la baracca. Si tratta di un personale che è tenuto, per fedeltà al suo ruolo, a servire al meglio ogni governo a prescindere dal suo colore politico. Magari è un’etica del servizio pubblico che va un po’ appannandosi, ma non oltre un certo limite. Aggiungiamoci che non si possono pretendere eroismi, cioè gente che si dimette dai propri ruoli per non lavorare sotto un ministero che non approva, sapendo fra il resto che in quei casi c’è la coda di chi è disposto a prendere il loro posto.
Poiché c’è poco di nuovo sotto il sole, ricorderemo che è già successo. Prendetevi la pazienza di leggere lo splendido libro di Guido Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello stato fascisa (Il Mulino) e vedrete documentato come il sistema amministrativo istituzionale precedente si adattò al fascismo, collaborò con i suoi vertici in imprese che non furono in parte negative. Accettò certo di indossare nuovi panni, ma in larga misura perché erano funzionali al disegno di fare “il loro mestiere”, cioè gestire le esigenze di governo di un paese che andava avanti nella storia comune.
Ovvio che accanto ci fu anche una fetta di spazi lasciati alla politica del tempo, quella del partito fascista e che vi furono conseguenze assai poco commendevoli, ma non sono queste a dare la cifra del problema. Non lo diciamo per nobilitare o giustificare quel che avvenne allora, perché poi la politica ha il suo peso e le sue responsabilità che l’amministrazione può contenere solo in parte. E infatti, a parte il discorso sulle libertà politiche che ovviamente non è marginale, non va dimenticato che quel potere lasciato nelle mani del fascismo gli consentì l’alleanza con la Germania nazista, l’entrata nella guerra mondiale e la distruzione di quel che l’Italia aveva guadagnato dopo l’unificazione.
Al momento, per fortuna, non siamo in presenza di una dittatura, neppure allo stato nascente e dunque non è di questa prospettiva che si parla. Più modestamente si invita a riflettere sul fatto che non si deve dare per scontato che l’alleanza legogrillina vada a sbattere per palese inconsistenza delle varie rodomontate elettorali che ha alle spalle. Anche qui va guardata la realtà: il Veneto ha il sindaco-sceriffo Gentilini, ma ha anche il governatore Zaia; se al potere ci fosse il primo sarebbe un disastro, ma invece c’è il secondo e la macchina funziona.
Dunque aspettiamo a vedere come andrà a finire: tra il dire delle elezioni e il fare del governo c’è di mezzo il mare dei vari sistemi istituzionali interni ed europei. Certo la pazzia degli uomini politici è sempre in agguato e, l’abbiamo già visto. Può darsi che qualcuno pensi davvero di avere in mano le leve per provare a fare gli esperimenti che vuole. Il rischio c’è, ma non è detto che si verifichi.
* Studioso di storia contemporanea
di Luca Tentoni
di Michele Iscra *