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20 aprile 2024
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E se il Covid avesse ucciso le Regioni?

Fulvio Cammarano * - 06.03.2021
Italia a colori

Ci siamo accorti che le Regioni stanno perdendo rilievo nella cartina geografica della gestione del Covid? Con l’estendersi della complessità, aumentano i colori (adesso c’è anche l’arancione scuro) e con la nuova scala cromatica tramonta l’egemonia statica della Regione. Adesso l’analisi, finalmente, passa sempre più dalle province e dai comuni. Sono decine gli esempi. La Romagna si muove indipendentemente dall’Emilia e Forlì si muove indipendentemente dal resto della Romagna. Mentre Bologna e Modena diventano zone rosse, Reggio Emilia rimane arancione scuro. Tutti i comuni della provincia di Como passano in fascia arancione “rafforzata” ma questo vale solo per alcuni delle province di Cremona, Mantova, Milano e Pavia. Invece a Bollate e Viggiù si passa dal rosso all’arancione scuro mentre Valgoglio nel bergamasco rimane rosso. Nelle Marche, la sola provincia di Ancona è passata in zona rossa e così via.

E se è vero che il peggioramento dell’ondata epidemica sta portando a misure più restrittive che riguarderanno le intere regioni, non per questo deve venir meno la convinzione che la diversità delle condizioni all’interno del quadro geografico nazionale si rispecchia meglio in una tavolozza arcobaleno come si conviene ad un contesto così complesso di realtà comunali e provinciali.

La realtà di questo Paese, quando si affrontano questioni operative, in nessun modo può riconoscersi in quel rigido e disfunzionale sistema che chiamiamo Regione. Nei primi mesi della pandemia le Regioni hanno, nel migliore dei casi, reso più faticoso l’iter sanitario, non fosse altro per la necessità di doverlo continuamente discutere con il governo, nel peggiore lo hanno aggravato, con scelte improvvide e sbagliate. Nei prossimi mesi, poi, la situazione è destinata a complicarsi ulteriormente. Se vogliamo mantenere la metafora tante volte utilizzata in questi mesi per descrivere la pandemia, quella della guerra, allora si può dire che siamo come quei soldati al fronte che sentono parlare della pace imminente pur trovandosi sotto un’intensificazione del fuoco nemico. La “terza ondata”, aggravata dalle incertezze delle varianti del virus, si sta confrontando, nell’ambito della comunicazione pubblica, con le notizie da una parte incoraggianti che giungono dai Paesi in cui la vaccinazione si trova ad uno stadio più avanzato (ad esempio la Scozia dove la vaccinazione ha permesso di ridurre dell’81 per cento il rischio di ricovero), ma dall’altra, deprimenti con la constatazione che le dosi sono insufficienti per tenere fede alla promessa campagna di massa e, dove ci sono, abbiamo visto incertezze su come procedere. I virologi ci hanno messo del loro nel dividersi fieramente tra favorevoli alla vaccinazione, anche senza garanzia della dose di richiamo, e contrari che la ritengono un grave errore.

Sarà a questo punto interessante confrontare la tenuta del comportamento delle persone di fronte al “rosso” del 2021 con quello del 2020! Con l’arrivo della primavera ci troveremo in un’insidiosa situazione ibrida che renderà inutilizzabile gran parte dei criteri sino ad ora adottati per segnalare le zone a rischio: l’incremento del numero dei vaccinati e di coloro in attesa della seconda dose, comincerà a far emergere una geografia a chiazze di leopardo dove alla riduzione del numero dei ricoveri in rianimazione, si affiancherà un aumento di coloro che si ritengono liberi di circolare anche in presenza di divieti. In questo scenario di lenta e scomposta uscita dalla pandemia, a rischiare di più, se non si incrementerà il ritmo della vaccinazione, saranno quelli che non si trovano nelle categorie a rischio, i quali, travolti dalla sindrome della “pace in vista”, abbasseranno le difese con tutto quello che ne consegue in termini di ulteriori focolai di contagio. Il tutto darà vita ad aree, se non sacche, di diffusione massiccia del covid collocate nel bel mezzo di altre aree covid-free o quasi. Avremo così l’ennesima conferma che la misurazione del contagio su scala regionale non ci serve. Seguire la diffusione del virus ha ormai senso solo se monitorata attraverso aree ben delimitate. La Regione, lo si è detto più volte, non ha alcun collegamento con la vita reale e con la logica dei territori e in tema di sanità e istruzione finisce per creare nuove gabbie per nulla funzionali ai bisogni dei cittadini. La pandemia, insomma, ha confermato la scarsa utilità della “forma-Regione” nel rappresentare bisogni e risolvere problemi dei cittadini. I padri costituenti l’avevano pensata come antidoto all’eccessivo accentramento del sistema politico nazionale, nella convinzione che un’istituzione rappresentativa su scala ridotta sarebbe stata in grado di garantire una maggiore partecipazione dei cittadini. Così non è stato. Anche in ambito politico si è rivelata una “creatura” non funzionale. Alzi la mano quel cittadino che, grazie alla Regione, ritiene di poter partecipare maggiormente alla vita pubblica. Lo tsunami sanitario che ci ha travolto ne ha mostrato anche la scarsa utilità come snodo amministrativo. Nella maggior parte dei casi, in questi mesi, infatti le Regioni, per loro natura e non certo per cattiva volontà, hanno semplicemente “asfaltato” le molteplici e concrete esigenze che giungevano dalle istituzioni locali. Nonostante gli sforzi per fidelizzare i cittadini all’organo Regione - a partire da una triste pubblicità televisiva che cercava di promuovere una sorta di patriottismo regionale – le persone continuano a vivere le comunità reali riconoscendosi nei sindaci e negli amministratori locali, con buona pace dei “governatori”, i quali, tra l’altro - almeno sino a quando l’Italia non diventerà un Paese compiutamente e costituzionalmente federale – potrebbero avviare una importante pratica di buon governo: chiedere di non essere chiamati con quell’appellativo così attraente, quanto improprio.

 

 

 

 

* Professore ordinario di Storia Contemporanea – Università di Bologna