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20 aprile 2024
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Dunkirk di Christopher Nolan. Il ritorno dell’epica di guerra (e l’involontario omaggio all’arroganza).

Marco Mondini - 09.09.2017
Dunkirk

Una pellicola enigmatica.

You can’t blame Christopher Nolan for Brexit («non possiamo rimproverare Christopher Nolan per la Brexit») ha scritto il Guardian il 20 luglio scorso. Non c’è dubbio. Quando il referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea si è tenuto, nel giugno 2016, l’ultimo film del regista anglo-americano, era già in fase avanzata di lavorazione: scritta la sceneggiatura, scelti gli attori e iniziate le riprese.Era da anni che Nolan meditava di raccontare al cinema l’operazione Dynamo, la leggendaria evacuazione delle truppe britanniche (e francesi), accerchiate dai tedeschi nella sacca di Dunquerque e miracolosamente riportate in Inghilterra negli ultimi giorni del maggio 1940, e comunque dal 2015 che si parlava della produzione del film.Eppure,lo spettatore europeo sfugge difficilmente alla sensazione che Dunkirk sia un inno trionfante all’orgoglio, al solipsismo e, per dirla tutta, all’arroganza britannica. Nolan, come la stragrande maggioranza degli intellettuali, degli artisti e in generale delle persone colte del Regno Unito, sarà anche personalmente contrariato dall’inopinata decisione dei suoi compatrioti, ma la sua pellicola possiede tutti gli ingredienti per assurgere al rango di emblema del neo isolazionismo dell’era Brexit.

 

Niente paura, siamo inglesi.

In effetti, Dunkirk ha poco a che fare con il racconto di Dunquerque. La battaglia reale è omessa, nascosta, e a volte decisamente tradita. I francesi, che concorsero alla difesa della sacca con una decina di divisioni combattenti (oltre 100mila uomini) e si sacrificarono in testardi scontri di retroguardia, nel film si battono solo in una brevissima sequenza iniziale. Per il resto scappano, piagnucolano o proprio non esistono. Il nemico è invisibile: non è mai una figura reale, al massimo (e anche qui per poche anche se spettacolari sequenze) una macchina, uno di quei caccia Me109 o di quegli Ju 87 (gli spaventosi ma tutto sommato inefficienti Stuka) su cui Göring tanto contava per annientare la volontà di resistenza degli alleati in fuga. In definitiva, l’intero film è dialogo e azione anglo-centrico (o Regno Unito-centrico visto lo spazio dedicato ai membri delle brigate scozzesi). L’orizzonte visivo è (quasi) interamente occupato dai sudditi di Sua Maestà. Lo spettatore ha la percezione che a Dunquerque ci fossero solo britannici che soffrivano, attendevano pazientemente (l’icona delle ordinate file di fanti sulla spiaggia pronti a imbarcarsi con ordine tipicamente british non poteva mancare), cercavano di rientrare a casa in qualche modo, morivano e saltuariamente combattevano. E’ vero che la massa dei fanti non è descritta con accenti troppo marziali: l’ansia del ritorno può trasformare anche il più incallito soldato di mestiere in un traumatizzato isterico, e il regista non fa sconti alla fragilità del maschio albionico. C’è il travolto dallo shell-shock che aggredisce uno dei suoi salvatori pur di non doversi dirigere nuovamente verso la costa francese, il superstite di un reparto sterminato che le prova tutte pur di rientrare a casa (non imposta se fraudolentemente), e gli Highlanders disposti a consegnare i propri alleati o commilitoni al nemico se questo significherà staccare un biglietto per Dover. Ma se la nevrotica ansia di salvezza si traduce nel panico di alcuni, agli altri (molti altri) rimangono abbastanzaonore,  sprezzo del pericolo, coraggio e disciplina da far sfigurare le pellicole iper-patriottiche del cinema di guerra degli anni ‘50.

Dunkirk è un’epica rappresentazione di tutti i miti della resistenza britannica al male che avanza, dai civili che prendono il largo a bordo delle proprie barchette per mettere in salvo i propri ragazzi in uniforme, ai marinai indifferenti sotto le bombe, al pilota che consapevolmente si sacrifica per il bene dei propri compatrioti. Nolan non racconta una sconfitta (peraltro, una delle più clamorose della storia militare contemporanea), ma una resurrezione. Dunquerque non fu (come avrebbe potuto) una disfatta perché, ci suggerisce il regista, gli inglesi non potevano essere piegati moralmente. Kenneth Branagh, che interpreta l’impassibile comandante Bolton, incaricato di dirigere l’imbarco dai moli, parla (anzi, sentenzia) come l’Enrico V di Shakespeare: we happy few, we band of brothers, per Dio, l’Inghilterra e San Giorgio. Quando i superstiti tornano in Inghilterra, si vergognano anche un poco: in fondo sono scappati invece che restare a sparare fino alla fine, secondo il canone del romantico last stand. Ma si rianimano quando la popolazione civile li saluta come eroi. We just survived!  - esclama esasperato un fuciliere che sente di essere venuto meno alle gloriose tradizioni del proprio reggimento - That’s enough - è già qualcosa, risponde un canuto volontario civile, consapevole che (per citare Churchill) ci saranno subito altre battaglie da combattere, e che ogni inglese a casa è una certezza in più che il Regno non verrà invaso.

 

Che bello stare da soli

Una delle più intriganti chiavi di lettura del film si trova proprio qui, nella bellezza e nell’orgoglio dell’isolamento. L’aspetto più enigmatico del lavoro di Nolan non èla scelta di dimenticare le decine di migliaia di francesi che combatterono, morirono e vennero evacuati, per espresso ordine di Churchill, insieme a ciò che restava del British Expeditionary Force (il vecchio statista sarà anche l’emblema dei Brexiters, ma è evidente che non l’hanno studiato abbastanza). Piuttosto, è la gioiosa celebrazione della solitudine di Britannia. «Abbiamo perso i nostri alleati, ne sono sollevato», dicono abbia esclamato re Giorgio alla notizia della ignominiosa resa dei francesi il 25 giugno: non è difficile immaginare come molti inglesiabbiano pensato lo stesso, emozionandosi alla visione di questo revival del bel tempo antico, imperiale e da grande potenza. Anche se inconsapevole, si tratta di una scelta determinante per la ricezione della pellicola. Da un lato, Dunkirk è certamente una tappa importante sulla strada del ritorno in auge di un codice tradizionale del cinema di guerra a base di eroi, maschi coraggiosi e spirito sacrificale – solo apparentemente i soldati sono vittime in fuga dalla violenza, nessuno di loro (e nemmeno nessun civile) cessa mai un attimo di battersi. Dall’altro, è uno sguardo inquietante sulle bizzarre nostalgie del pubblico britannico odierno. E’ difficile non pensare che la voce registrata di Churchill, che nel finale si appella alla special relationship con il Nuovo Mondo per combattere la battaglia contro il male, verrà letto non solo come un omaggio al coraggio di ieri, ma anche come una speranza (miope e mal riposto, naturalmente) per il futuro.