Dove va la democrazia?
Le democrazie contemporanee sono chiamate giornalmente a misurarsi con nuove sfide (la globalizzazione, la crisi economica, il terrorismo) e con nuovi soggetti politici (i partiti populisti, ma - più in generale - i populismi, siano essi di governo o di opposizione). È in questo contesto che, alla ricerca di alternanza, una parte consistente dell'opinione pubblica finisce per preferire la rottura, come testimoniano alcuni dei più importanti appuntamenti elettorali dell'ultimo biennio. Lo stesso populismo ha cambiato natura: "il divorzio fra le classi popolari in generale, quella operaia in particolare, e la sinistra socialista, al pari dell'erosione continua delle classi medie offre spazi politici al populismo". Così, "le democrazie sono divise da un cleavage territoriale che oppone, da un lato, le grandi metropoli globalizzate, inserite economicamente e culturalmente nel mondo e, dall'altro, il mondo dei piccoli e medi comuni, rurale, in ritirata di fronte ai grandi flussi della crescita e del cambiamento". Questo è il quadro che emerge da una delle più importanti ed estese ricerche internazionali, appena pubblicata ("Où va la démocratie?" - 2017, ed. Plon) e realizzata dall'Ipsos per la Fondation pour l'innovation politique (Fondapol). Il volume è una miniera di dati sullo stato della democrazia e dei singoli 26 paesi esaminati (22 dell'Unione europea, più Svizzera, Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti): fra i numerosi capitoli, si segnalano quelli dedicati ai giovani europei, alla Spagna, alla Grecia e alla Francia. Lo scopo dell'analisi, diretta da Dominique Reynié, è di contribuire alla riflessione sul futuro dei regimi democratici nell'era della globalizzazione. Il dato più eclatante - ma certo non inatteso, per noi italiani - riguarda l'alta percentuale di coloro i quali stimano che nel loro paese la democrazia "funzioni" abbastanza o molto male: il 55% nell'UE, il 54% negli USA. Si tratta, però, di valori medi, per quanto riguarda il nostro continente. Infatti, il grado di insoddisfazione verso il funzionamento della democrazia è basso nel Nordeuropa (17% in Norvegia, ma valori sotto il 35% si registrano anche in Svezia, Finlandia, Olanda), medio in Germania, Austria, Portogallo e Gran Bretagna, oltre il 50% in paesi come la Francia (53) e la Spagna (60%), ma molto elevato nel blocco dell'Est (fra il 60 e l'80%), in Grecia (67%) e soprattutto in Italia (79%), Ungheria (80) e Buglaria (82) come rileva in un capitolo Bruno Cautrès ("La preferenza per un uomo forte alla guida dello Stato"). È come se - aggiunge Cautrès - "l'Italia, nel contesto della grande recessione economica, fosse in qualche modo scivolata verso l'Est". Il 41% dei nostri connazionali che hanno risposto al sondaggio dichiara di essere abbastanza o molto d'accordo con l'ipotesi di un "uomo forte" che governi il Paese: ben più della Gran Bretagna (19), della Grecia (19) e della Spagna (22), ma anche di Francia e Germania (35) e persino più della Polonia (23: ma non dei paesi balcanici e di Austria, Repubblica Ceca e Slovacchia). Secondo lo studio, chi in Europa vuole l'"uomo forte" vive soprattuto (74%) in città con meno di centomila abitanti (42% in centri con meno di 15mila); al contrario, nelle grandi città i favorevoli scendono al 12%. Del resto, come spiega Corentin Sellin (nel capitolo "De la démocratie en Amerique: où en est-on ?") negli USA, il voto a Trump "è stato quello delle zone periferiche contro le grandi metropoli, le quali hanno scelto Hillary Clinton. Fra le categorie di classificazione delle zone rurali e urbane del dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti, Clinton ha vinto solo nelle città con più di un milione di abitanti; al contrario, più la zona era rurale, più Trump si è affermato largamente. Gli abitanti delle metropoli si definiscono ottimisti più della media, mentre nelle città più piccole e nelle zone rurali l'opinione si caratterizza per una tendenza alla sfiducia e al pessimismo". Oltre alla frattura territoriale c'è dunque anche quella socio-economica: come scrivono Corinne Deloy e Aminata Kone nel loro capitolo sul "malessere dei ceti popolari", se questi "si mostrano in gran maggioranza tolleranti verso le differenze religiose, sessuali o politiche, lo sono però meno delle altre categorie. Inoltre, la metà degli operai è favorevole alla pena di morte, i due terzi ha un giudizio negativo sull'immigrazione" e "la maggioranza degli operai reputa che non è più possibile accogliere altri migranti, soprattutto per ragioni economiche (70%)". Il malessere dei ceti più bassi "si traduce in una disfunzione nella relazione con le élites e nell'aumento del distacco fra governanti e governati". Uno degli indicatori più importanti della divisione che si fa sempre più marcata nelle nostre democrazie è quello sull'utilità del voto. Se il 66% degli europei è d'accordo con l'affermazione "è utile votare perchè è tramite le elezioni che si possono cambiare le cose", è però vero che la percentuale muta a seconda di molti fattori: sale al 72% fra chi considera la mondializzazione un'opportunità, scende al 58% fra chi la vede come una minaccia; è alta (73%) fra chi ha interesse per la politica, pensa che i cambiamenti recenti siano stati positivi (75,5%), la propria vita è migliorata (76%), giudica una buona cosa l'appartenenza all'UE (80%), reputa che la democrazia nel proprio paese funzioni bene (83%), che il regime democratico è il migliore per il proprio paese (74%) e che l'immigrazione è positiva (79%). Al contrario, è più d'accordo con l'affermazione "votare non serve a niente: i politici non tengono conto della volontà del popolo" (34% del campione intervistato in Europa) chi pensa che i cambiamenti lo hanno danneggiato (46%), il proprio tenore di vita è peggiorato (46%), l'appartenenza all'UE è una cosa sbagliata (55%), la democrazia nel proprio paese funziona male (49%), l'immigrazione è un fatto negativo (42%). La "disillusione democratica", afferma Dominique Reynié, è più forte nelle democrazie più recenti, nate dalla fine del comunismo, ma non risparmia neppure le democrazie più consolidate, come l'Italia, la Francia, la Grecia, la Spagna. Secondo Marc Lazar, autore del capitolo dedicato all'Italia, la nostra situazione "è quella di un paese molto inquieto, che critica l'Europa ed esprime un profondo malessere democratico; l'insieme di tutti gli elementi contribuisce a fare dell'Italia l'anello debole dell'UE". L'inquietudine, spiega Lazar, si fonda su un giudizio critico circa gli ultimi venti anni: "il 62% degli italiani pensa che la mondializzazione sia un'opportunità, ma la stessa percentuale giudica che tutti i cambiamenti degli ultimi decenni non hanno portato benefici per loro"; il 47% afferma che il proprio tenore di vita è peggiorato, il 70% vede "minacciato" il proprio stile di vita. È un Paese impaurito: il 97% teme la disoccupazione, il 95% la crisi economica, il 94% la fine del Welfare, il 94% la criminalità, l'89,5% lamenta le diseguaglianze sociali. Anche verso l'Europa, "il paese che ebbe 60 anni fa il ruolo di cofondatore e che fu per molto tempo il più europeista, oscilla verso un pronunciato euroscetticismo, che però non si traduce in una volontà di rottura: il 45% degli italiani vuole ancora l'euro, però l'Italia non è più la portabandiera dell'Europa" anche se vuole restare nell'UE. Ciò che affligge la democrazia italiana è un "violento malessere": lo testimoniano la sfiducia per partiti (93,5%), Governo (80), Parlamento (78,5); la classe politica è considerata corrotta (88%) e sembra fare solo il proprio interesse (94%). Ciò non vuol dire - spiega Lazar - che gli italiani non amino la democrazia, anzi, "molti aspirano ad una democrazia più partecipativa". Però, "il rischio è che questa situazione, già abbastanza preoccupante, peggiori nei prossimi mesi: le elezioni legislative del 2018 potrebbero impedire la formazione di un governo in grado di disporre d'una chiara maggioranza per fare le riforme necessarie". Il pessimismo di Lazar nasce dalla lettura dei dati, quindi da quanto hanno affermato gli stessi italiani che sono stati intervistati, i quali hanno tracciato il quadro che l'autore si limita a mostrarci. Dunque, "l'Italia è alla deriva; l'analisi non può non considerare anche i grandi contrasti territoriali fra Nord e Sud, che si allargano sempre più. Ma l'errore più grave" aggiunge Lazar, "sarebbe quello di credere che l'Italia costituisca un'anomalia in Europa: in effetti presenta alcune particolarità, ma non fa che anticipare e accentuare tratti che si ritrovano altrove. L'Italia è lo specchio deformato di una crisi della rappresentanza politica che si osserva in quasi tutti i paesi europei". Il malessere italiano e, più in generale, delle democrazie, è un problema reale. Come scrive Reynié, "la democrazia non è solo questione di istituzioni, ma anche di cultura. In assenza di cultura democratica, nessuna istituzione può generare la democrazia". La perdita di fiducia nel futuro individuale e collettivo, conclude Reynié, riflette "la rottura di un potere psicologico e collettivo essenziale per le dinamiche democratiche. Le democrazie non sono più in grado di proporre grandi progetti. I loro nemici devono parte della loro forza ad una mancanza di prospettiva".
di Luca Tentoni
di Gianpaolo Rossini