Ultimo Aggiornamento:
22 marzo 2025
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Difficile prevalga la ragione…

Paolo Pombeni - 12.02.2025
Caso Almasri

Una qualche speranza che si stemperi almeno un poco il clima di lotta generalizzata (ma talora verrebbe voglia di parlare di zuffe) dominante nella politica la si è avuta col cambio al vertice della ANM: il nuovo presidente, che è espressione di una corrente moderata pur essendo anch’egli un PM, ha manifestato disponibilità ad un confronto con la presidente Meloni ed ha subito ricevuto una analoga disponibilità da Palazzo Chigi. Se si tratta di una questione di bon ton fra le istituzioni (sarebbe comunque già qualcosa) o di una reale consapevolezza da entrambe le parti che il dialogo non solo conviene, ma è doveroso, lo vedremo nel corso dei mesi.

Non a breve, perché smontare delle barricate non è un’operazione che si fa rapidamente. Il sindacato dei giudici non ha rinunciato allo sciopero e alle manifestazioni un po’ da sceneggiata come quella di indossare coccarde tricolori sulle toghe, ma si può capire: quando hai eccitato gli associati e c’è una presenza forte delle componenti corporativo-radicali, non è che ti puoi mettere di colpo contro di loro spaccando inevitabilmente il fronte. Neppure il governo e la maggioranza sono veramente pronti a trovare vie di dialogo: dopo avere scommesso sulla riforma della magistratura come simbolo di una nuova era politica, non può facilmente accettare di rimodulare tutto. Anche su quel lato della barricata ci sono spaccature: non si può bruciare un ministro come Nordio che si è molto esposto, non proprio con grande abilità, né si può ignorare che ci sono componenti come FI che hanno fatto della riforma la loro bandiera, o come Salvini che è pronto a cercar di indebolire la posizione della premier accentuando i suoi deliri trumpiani (vedi le sue intemerate all’incontro madrileno delle estreme destre europee).

La faccenda delicata è che manca il contesto per arrivare ad un disarmo bilanciato negli scontri fra maggioranza e opposizioni. Lo si vede bene dall’arrocco di Renzi e Calenda, i quali, pur giocando ciascuno per sé, sono in questo momento molto bellicosi nei confronti del governo.

Il fatto è che di fronte alle continue fibrillazioni che scuotono il nostro mondo politico (caso Almasri, caso Santanché, conflitti fra governo, servizi segreti e magistratura, referendum sulla legislazione del lavoro per cui la settimana prossima parte la campagna elettorale, tensioni varie in molteplici comparti industriali) cresce l’interrogativo se il governo Meloni sarà in grado di reggere o se ricorrerà alla drammatizzazione del ricorso allo scioglimento della legislatura.

Alcune componenti dell’opposizione, a cominciare dai vertici del PD, sembra si convincano sempre più che questa prospettiva possa avverarsi e di conseguenza alzano i toni, adottano una politica da (passate) assemblee studentesche gruppettare, fanno a gara nel ricorrere al più banale populismo (il governo alza il polverone per non affrontare i veri problemi del popolo).

Di converso la maggioranza è spinta a fare quadrato in modo piuttosto scomposto. Anche facendo la tara alle trovate di Salvini che scimmiotta Trump, ignorando che comunque quello ha una potenza incomparabile con la sua, si nota l’abbandono da parte di Tajani e del suo partito della postura da componente moderata e ragionevole del destra-centro. Non la si spiega se non pensando che abbia condiviso che si va allo scontro finale, cioè ad una lotta che non tollera si possa stare nel mezzo (del resto è più o meno quello a cui, come dicevano, si sono arresi i piccoli partiti centristi sul versante delle opposizioni).

La posizione di Giorgia Meloni ci pare in questo contesto peculiare. In chi è arrivata all’improvviso e tutto sommato in modo insperato a diventare il perno della nostra vita politica, in chi contemporaneamente è riuscita a guadagnarsi un ruolo internazionale impensabile per una “debuttante”, la prospettiva di poter essere sbalzata di sella diventa motivo di angoscia, più o meno consapevole. Viene accentuata dalla percezione di vivere una posizione abbastanza solitaria, priva sia di una robusta classe dirigente che possa veramente farle da scudo, sia di una base di consenso abbastanza solida e ampia da poter sopravvivere e perpetuarsi anche dopo una eventuale sconfitta elettorale.

Se non si tiene in considerazione questo contesto diventa difficile capire le mosse abbastanza rabbiose con cui la premier sta affrontando la contingenza che abbiamo descritto. Non ci sembra da apprezzare la strategia delle opposizioni che pensano di esasperare la situazione convinte che così si farà saltare l’equilibrio politico instauratosi con le elezioni del 2022.

È vero che si tratta di un equilibrio per certi aspetti più precario di quel che la maggioranza ritiene, ma non c’è certezza che una volta si richiamassero i cittadini alle urne a vincere non sarebbero le preoccupazioni per un cambio di politica che non è così attraente come appare ai novelli populisti della sinistra: non fosse altro perché a quel fronte manca un leader con la statura necessaria per imporsi sulle velleità personalistiche di tanti capi e capetti, e perché un vero progetto politico unitario che contenga qualcosa di più di una somma di parole d’ordine non si riesce ad intravvedere.

Già giovedì 13 febbraio, quando sarebbero programmate le ennesime votazioni per dare alla Corte Costituzionale il suo plenum eleggendo i successori dei quattro giudici che hanno terminato il loro mandato, si vedrà se almeno per adempiere ad un dovere costituzionale si riuscirà a gestire in una maniera adeguata una tregua nella guerriglia politica continua. Non che basti raggiungere un risultato per quel caso perché si possa concludere che c’è speranza in un riassetto ragionevole del nostro sistema politico, ma almeno si darebbe al Paese il messaggio che nonostante tutto qualcosa, si spera di buono, si può comunque concludere.