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Chi semina vento …

Michele Iscra * - 25.04.2018
Chi semina vento

Chi semina vento raccoglie tempesta, recita un tradizionale detto popolare. Le prove sulla saggezza di questa asserzione non mancano e diremmo che anche nelle circostanze attuali se ne hanno conferme.

Partiamo da una osservazione forse estemporanea, ma probabilmente no. Si dice che Silvio Berlusconi abbia manifestato irritazione perché varie trasmissioni delle sue TV sono campioni nella diffusione della mentalità populista. Verrebbe da commentare: meglio tardi che mai. Si scopre però che questi talk show saranno forse ridimensionati, ma con cautela, perché sarebbe controproducente offrirsi agli attacchi inevitabili di chi vi vedrebbe una censura contro gli umori del popolo. Berlusconi del resto dovrebbe ricordarsi che quanto a cavalcare gli animal spirits della gente non è stato secondo a nessuno. Certo gli è successo – ma era inevitabile - come  all’apprendista stregone che non è stato capace di tenere sotto controllo gli spiriti che ha evocato.

Il fatto è che il leader e fondatore di Forza Italia non è stato solo in questa corsa. La sinistra, che fa la schizzinosa quando sono meccanismi usati dagli altri, ha una storia lunga in questo settore. La sua presunzione di rappresentare il “partito dei puri” contro i corrotti, fossero i democristiani, i socialisti, o i nuovi partiti sorti dalle ceneri della seconda repubblica, non può essere dimenticata. Anzi nel suo caso la faccenda si è complicata per l’esistenza al suo interno di una gara a chi era più radicale nel respingere e condannare tutto quel che facevano gli altri. Non si possono certo scordare le varie esternazioni dell’antiberlusconismo, che hanno abituato il pubblico a ragionare come se si fosse in presenza di una lotta fra angeli e demoni.

Nessuna meraviglia dunque se alla fine sono arrivati i grillini che hanno esasperato tutto questo e se quel che restava della vecchia Lega di Bossi ha scoperto che il gioco del Nord virtuoso contro “Roma ladrona” poteva essere riverniciato in termini nazionali (e nazionalisti) e avrebbe continuato a funzionare benissimo.

Nel grande tritacarne di questa bagarre populista, è un po’ ridicolo che ci sia chi, come fa Berlusconi, accusa i grillini di “non conoscere l’ABC della democrazia”. Forse che nel ventennio appena trascorso c’è stato un qualche sforzo per farlo imparare a quel popolo che si continuava improvvidamente a chiamare in causa?

Guardiamo un dato banale e cioè la spartizione delle spoglie del potere. Ci sono ricorsi tutti e senza alcuna paura di apparire sfrontati. Quando si è trattato di distribuire i posti controllati dalla politica, che sono tanti e vanno dai vertici RAI a quelli delle numerose aziende di stato, il criterio di scelta è sempre stato quello della fedeltà politica. Poteva capitare che giusto per coincidenza accanto a quel requisito ci fosse anche della competenza, ma non era determinante. E allora come si può fare a prendersela con Di Maio e compagni che pensano sia arrivata la loro ora e che ciò coincida con la licenza di gestire le spoglie del potere pubblico?

Si può rilevare che a volte i Cinque Stelle sono un po’ ingenui perché non sanno mascherare bene i loro appetiti, ma anche questo è solo relativamente vero. In fondo usano le stesse argomentazioni che si sono rincorse in vent’anni di intemerate politiche: il potere spetta a chi è “puro” e può dimostrarlo non abbassandosi a condividerlo con altri. Naturalmente l’argomento suona inaccettabile fuori di una certa cerchia, ma così era anche prima: la sinistra non era disposta a considerare “puro” nessun esponente della destra (chi aveva dubbi su questo assioma veniva ostracizzato) e a parti invertite accadeva la stessa cosa nella destra.

Quale è dunque la vera novità di questi giorni? E’ che la contrapposizione angeli/demoni è uscita dai tradizionali canoni del confronto sinistra/destra. Spavaldamente i Cinque Stelle si considerano estranei alla catalogazione in queste categorie. La Lega, e in specie il suo leader Salvini, lo sono altrettanto, anche se per tattica hanno pudore a rinnegare una appartenenza alla destra (ma qualcuno ricorderà che anche il Bossi delle origini non si riconosceva in quella dicotomia). Di fatto la Lega di Salvini è un partito populista, che usa altri punti di riferimento: non è nazionalista nel senso della tradizionale destra, è “sovranista” nell’ottica della repulsione di qualsiasi innesto dall’esterno di dinamiche demografiche, perché questo non mette in discussione la “nazione” nella vecchia ottica, ma la piccola comunità di cittadini che temono di perdere quanto hanno guadagnato in passato.

L’accordo fra M5S e Lega non è dunque difficile e prima o poi si farà. Magari non nella formula consueta del “contratto di governo”, ma nello scivolamento di un elettorato verso il campo dell’altro. Il partito unico del populismo è una opzione reale, perché al momento in questo paese prevale in una quota maggioritaria della sua popolazione la paura del futuro e, ammettiamolo, gli unici che, pur con ricette diverse (e anche solo relativamente compatibili), si propongono come capaci di “svoltare” rispetto al passato sono loro due.

Si può essere poco felici nel fare questa constatazione, ma, qualora si volesse impegnarsi davvero per non arrendersi ad essa, bisognerebbe cominciare ad un radicale ripensamento della irresponsabile stagione in cui si è corsi a seminare vento a piene mani. Perché proprio per questo noi oggi raccogliamo tempesta.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea