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27 marzo 2024
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"Caso veneto" e futuro del centrodestra

Luca Tentoni * - 07.03.2015
Flavio Tosi e Matteo Salvini

Osservato dall'estero, il contrasto fra Salvini e Tosi sulla gestione delle elezioni regionali venete potrebbe apparire come un'ordinaria storia di potentati locali, di nessuna importanza per lo scenario politico nazionale. Anche noi italiani, in effetti, osserviamo spesso frizioni e contrapposizioni molto dure a livello periferico, che talvolta (come nel caso di alcune elezioni primarie del Pd o del "commissariamento" di Forza Italia in Puglia) travalicano i confini regionali per entrare, con minore o maggiore evidenza, nel confronto politico nazionale. Il caso in questione, tuttavia, non può essere ricondotto alla formale materia del contendere, ma alla sostanza. O meglio, ai tanti risvolti, ai non detti, agli effetti che questa "scarica nervosa" può produrre su parti ben distanti dal luogo dov'è stata generata, inducendo reazioni dirette e indirette non del tutto prevedibili. Poiché l'episodio avviene nel "cuore" di una "matrioska" molto più grande della Lega e del Veneto (il centrodestra italiano) la nostra analisi dovrà procedere per gradi e ampliamenti successivi, seguendo l'"impulso nervoso" dal nascere all'effetto che potrà produrre fino all'esterno dell'ambiente nel quale è nato (ovvero, nell'intero sistema politico italiano).

 

Grane padane

 

Sin dalle origini, Lega lombarda e Liga veneta sono state entità diverse. La Liga fu la prima ad ottenere seggi in Parlamento (un deputato e un senatore) nel lontano 1983, quando la Dc era ancora egemone in molte delle province che sarebbero diventate roccaforti dei nuovi movimenti autonomisti. La Lega, invece, entrò alla Camera e al Senato alle elezioni del 1987. La nascita della Lega Nord e l'unificazione, sotto la guida di Umberto Bossi, delle varie anime dei partiti regionalisti con l'identificazione di un'entità geografica intesa come "Stato federale" (la Padania) che comprendesse i vari "stati nazionali" (le regioni del Nord, anche se fra il '92 e il '94 si arrivò a concepire l'estensione territoriale fino a ricomprendere le regioni centrali, Lazio escluso, presentando liste leghiste in tutti questi territori, alle elezioni politiche e talvolta alle amministrative) sembrò sopire differenze di vedute fra i "popoli" che invece sopravvivevano nei contrasti fra lombardi, piemontesi e veneti. Col passare delle stagioni trascorse metà del tempo a sostegno del governo nazionale italiano (1994; 2001-2006; 2008-2011, ma anche 1995, nella maggioranza di Dini) e metà all'opposizione (1996-2001; 2006-2008; 2011-2015), la configurazione elettorale del Carroccio è andata ridefinendosi progressivamente, anche a causa di variazioni di consensi che hanno visto spesso il movimento oscillare fra minimi di stretta sopravvivenza (3,9% nel 2001; 4,6% con Mpa nel 2006; 4,1% nel 2013) e "picchi" storici (10,1% nel 1996, 10,2% alle europee 2009, 10,3% nella tornata di elezioni regionali 2008-2011, 10,5% alle regionali 2012-2014). La componente piemontese, ad esempio, che nel '92 aveva, in percentuale regionale di voti, un peso pressoché pari alla veneta (16,3% contro 17,3%) ma sempre minore rispetto alla lombarda (25%) è andata indebolendosi col tempo. Per contro, il Veneto è diventato sempre più la roccaforte leghista per eccellenza, strappando alla Lombardia uno dei due primati che deteneva: non quello del maggior numero di voti assoluti al Carroccio, ma quello della maggior percentuale di voti (prima nel 1996, poi nel periodo 2008-2010, infine alle europee 2014: in quest'ultimo caso, il 15,2% contro il 14,6% lombardo). La Lega, inoltre, in virtù dell'accordo di governo con Berlusconi, ha ottenuto nel 2010 le sue prime presidenze di regione: Lombardia, Veneto e Piemonte. Quest'ultima esperienza, tuttavia, si è prematuramente interrotta, com'è noto, lasciando al Carroccio la guida delle due vere assi portanti territoriali dell'intero movimento. In questo quadro, soprattutto dopo l'ascesa del lombardo Salvini alla leadership leghista e del veneto Tosi alla guida del partito locale (ma non della regione, governata da Zaia), si è creata una sorta di dualismo che, nei primi momenti di un "nuovo corso" determinato a far dimenticare l’infelice epilogo della stagione bossiana e a rilanciare anche su basi di rinnovamento generazionale il Carroccio, si è tradotto in una sorta di divisione dei ruoli: a Salvini la leadership e il seggio in Europa, a Tosi la promessa di diventare il candidato premier leghista in un futuro centrodestra e la possibilità di "sbarcare al centrosud" con i suoi "Fari", filiali della Fondazione "Ricostruiamo il Paese" creata dal sindaco di Verona. La crisi del centrodestra, però, unita alla svolta "nazionale" di Salvini e all'accentuarsi di una politica volta a valorizzare – rispetto a quella “etnica” - la componente programmatica (contraria a euro, immigrati e UE, favorevole ad una drastica riduzione delle imposte) e ad un atteggiamento "anti-sistema" non solo rivolto verso un governo del quale alcuni ex alleati (Area popolare: Ncd-Udc) facevano parte, ma col quale altri (FI) avevano stretto intese, sia pur limitate all'ambito delle riforme istituzionali (il "patto del Nazareno") ha attratto verso la Lega - complice anche la crisi economica ed occupazionale - milioni di voti "potenziali" (perché attribuitile dai sondaggi). Il tutto, insieme ad un'ampia esposizione mediatica di Salvini quale leader nazionale (difensore, dunque, di una nuova "confederazione" non più nordista ma italiana, avversa non più a Roma, dove infatti si è svolta pochi giorni fa la prima importante manifestazione d'inizio di un nuovo corso, ma a Bruxelles) e alla contrapposizione mediatica con "l'altro Matteo", ha reso inevitabile la resa dei conti con l'uomo che era stato a suo tempo designato come candidato premier del Carroccio. Di qui, i contrasti più importanti che hanno portato agli scontri più recenti fra Salvini e Tosi, anche se in realtà, a livello locale, le partite aperte sono molte di più: non solo fra lombardi e veneti, ma fra Zaia e Tosi (soprattutto negli equilibri del Consiglio regionale) e fra le federazioni locali venete, per non parlare della scia di risentimenti e malumori generata dalle vicende seguite alla "rivoluzione delle scope" che esautorò Bossi a suo tempo. C'è, inoltre, la questione della gestione del potere che, inevitabilmente, interessa ogni soggetto politico che si trovi ad avere una sostanziale supremazia elettorale sul territorio di una regione importante come il Veneto. Appaiono dunque fisiologici i contrasti: sui "patti infranti", sul potere nel partito e negli enti locali, sulla lista Tosi che il sindaco di Verona avrebbe voluto affiancare a quella leghista (decisa dal consiglio veneto, guidato dallo stesso Tosi) e da un'eventuale lista Zaia, dalla questione di non ricandidare i consiglieri eletti già per due volte (molti dei quali tosiani) e sulle conseguenze della riduzione dei posti di consigliere regionale (e del margine di maggioranza, esponendo così ancor più Zaia, nel suo secondo quinquennio da "governatore", al voto determinante non solo degli alleati di coalizione ma ancor più delle correnti nel Carroccio veneto). Così, dopo il "commissariamento provvisorio" della “Liga” (Dozzo è stato chiamato ad occuparsi della gestione del periodo pre-elettorale) e la pronuncia del “Consiglio nazionale” veneto che dichiara il provvedimento “irricevibile” si arriva, in attesa di ulteriori sviluppi, alla vera questione: la difficoltà di conciliare la "vocazione nazionale" di Tosi e quella - differente - di Salvini. Ma questo ci porta ad uscire dalla prima "matrioska" locale e leghista per entrare nella seconda, quella del centrodestra nazionale.

 

L'aquila a due teste

 

Il centrodestra ha ancora tempo per riorganizzarsi. Le elezioni politiche sono in programma per il 2018, a meno che il presidente del Consiglio Renzi non provochi lo scioglimento anticipato delle Camere una volta superato il "periodo di latenza" dell'Italicum (la legge elettorale entrerà in vigore solo nel 2016) e dopo che il Parlamento avrà approvato in via definitiva (col voto del Parlamento ed esito positivo del referendum confermativo popolare) la riforma costituzionale che prevede la trasformazione del Senato. Dopo il sì alla legge costituzionale, il Senato entrerà in un limbo nel quale continuerà ad avere i propri poteri ma solo fino alla fine della legislatura. Col rinnovo dell'Assemblea di Montecitorio, infatti, sarà sciolto anche Palazzo Madama e avrà luogo la nascita del nuovo Senato. In quel momento, per competere col Pd di Renzi (a meno che quest'ultimo non superi direttamente il 40% dei voti, evitando il ballottaggio fra i due partiti più votati, o che il secondo turno avvenga fra Pd e M5S) il centrodestra cercherà di diventare competitivo. Per farlo, tuttavia, dovrà darsi una fisionomia coalizionale prima e (cosa molto più complessa) formalmente unitaria poi (l'Italicum prevede una competizione fra liste, quindi Alfano, Berlusconi, Casini e Salvini dovranno dar vita ad un "cartello" unico). Ad oggi, però, già affrontare le elezioni regionali di maggio appare un'impresa. La vecchia CDL governa solo in tre delle venti regioni italiane: Lombardia, Veneto, Campania. Queste ultime due vanno al voto. La Campania è a rischio, perchè il candidato del centrosinistra stavolta è accreditato di un buon risultato. La competizione, tuttavia, è aperta se i centristi si alleano con Caldoro (Forza Italia) e se la Lega di Salvini entra in coalizione, non si presenta o prende pochissimi voti. Se invece Ncd e Udc (AP) corressero da soli o confluissero nella coalizione di De Luca, Forza Italia potrebbe trovarsi per la prima volta nella sua storia a non avere più alcuna presidenza di regione. Non sarebbe un buon viatico, considerando anche i contrasti interni al partito "azzurro" e l'avvicinarsi, per Berlusconi, dell'ottantesimo compleanno (senza contare i procedimenti giudiziari tuttora in corso). Il problema dell'intesa FI-NCD in Campania è in parte legato alle vicende venete. Salvini non vuole il partito di Alfano nella coalizione: del resto, se il leader del Carroccio afferma di voler patti "con gli elettori di Forza Italia" e non col Cavaliere (anche se si sta facendo più di un tentativo di conciliazione FI-Lega), figurarsi se vuole aprire ai centristi, "rei" di governare a Roma con Renzi (e verosimilmente non troppo rilevanti sul piano numerico, nella corsa fra Zaia e Moretti). In realtà, prendendo per base i risultati delle europee, il Pd partirebbe in Veneto dal 37,5% contro il complessivo 33,2% (ma 36,7 con NCD) del centrodestra: numeri che, alla luce della particolarità della consultazione locale e della forza del candidato uscente, vanno però verosimilmente rivisti al rialzo per il centrodestra (soprattutto, e di molto, per la componente leghista) e un po' limati per il centrosinistra. Così, il contrasto "locale" fra Salvini e Tosi giunge a diventare qualcosa di ben più importante: se il sindaco di Verona si candidasse alla guida della regione con i centristi potrebbe togliere voti a Zaia. Quanti (e se decisivi o meno) non si sa, anche perchè solo il passaggio (improbabile, allo stato) di Forza Italia con Tosi potrebbe rendere la competizione veneta aperta ad ogni risultato (compreso quello favorevole alla terza incomoda, la Moretti candidata del Pd). La sconfitta di Zaia in Veneto toglierebbe slancio alla rincorsa della Lega di Salvini verso la primazia nel centrodestra, ma soprattutto verrebbe addotta dai moderati a dimostrazione che senza una coalizione come la vecchia CDL non si vince neanche in una tradizionale regione "bianca". La vittoria del governatore uscente contro tutti (Tosi compreso) sarebbe invece il segnale che la destra di Salvini può andare da sola e vincere: non subito e dovunque, ma col passare del tempo e il crescere del malessere sociale che oggi la porta in alto nei sondaggi e in futuro potrebbe consentirle di erodere la parte dell'elettorato del M5S composto da ex elettori del vecchio centrodestra. Senza contare che un discreto risultato del candidato leghista in Liguria potrebbe compiere l'opera. I sondaggi, del resto, sono chiari: attribuiscono alla Lega "nazionale" di Salvini fra il 13 e il 16% dei voti. Se al Nord e nella "zona rossa", però, le percentuali si avvicinano molto a quelle delle regionali 2010, segnando in pratica solo un recupero di posizioni dopo la bufera del 2012, quel 10% e oltre nel Lazio e nel Sud (ben lontano dal 3% del 2010) e il 6% nelle Isole sono il segnale che qualcosa di importante potrebbe cambiare, nell'area elettorale italiana più soggetta al mutamento di voto, anche massiccio e repentino. La partita che si gioca alle regionali, dunque, è fra due tipi di centrodestra: quello di Tosi, che guarda al centro e cerca di coprirsi a destra e quello di Salvini, che parte da destra e chiama gli elettori moderati. Sono lontani i tempi dell'aquila a due teste, cioè della CDL berlusconiana che sapeva guardare in entrambe le direzioni, avendo però un robusto corpo centrale "azzurro". È comprensibile, pertanto, il dubbio di Berlusconi sulla via da seguire, anche perché, come vedremo fra poco, è improbabile che "l'intendenza" possa seguirlo.

 

L'alternativa improbabile

 

Alle regionali di maggio non sarà importante solo verificare in quante regioni governeranno esponenti del vecchio centrodestra. Occorrerà contare i voti. Se la base elettorale di centristi e FI è meno consistente in Veneto e più robusta in Campania e Puglia, è proprio in queste realtà che si dovrà misurare l'evoluzione in termini di voti assoluti e in percentuale. Mentre al Nord la concorrenza leghista è forte e pericolosa, in Campania bisogna misurare la tenuta di quello che oggi appare come il maggior "granaio azzurro" e, in Puglia, si dovrà vedere se il commissariamento del partito e l'esautoramento dei fittiani produrrà conseguenze sul piano elettorale. Per contro, se in Veneto e forse in Liguria e Toscana Salvini può attendersi risultati che confermino i sondaggi nazionali, a sud di Roma la prova è ardua. Una parte fondamentale, com'è probabile, spetterà all'astensionismo, ma in genere il non voto non è perfettamente omogeneo: penalizza maggiormente i partiti che stanno perdendo contatto col proprio elettorato. Dopo il voto di maggio, quindi, comincia una lunga marcia verso le elezioni politiche nazionali. In questa nuova partita entrano anche le forze estranee al centrodestra: il Pd e il M5S. Non solo perché la competizione con l'Italicum si svolgerà fra due partiti (se gli altri saranno deboli e divisi, in gara resteranno Renzi e Grillo) ma perché Tosi e Salvini rappresentano bene, plasticamente, due concezioni del centrodestra distanti se non opposte. Da un lato, quella che torna sulla tradizione dell'ultimo ventennio, con la "postilla" però della richiesta di una nuova leadership al posto di quella berlusconiana. In questo campo, si resta sul modello duale della convivenza fra gli appartenenti al Partito popolare europeo e le destre. Il che presuppone, però, che non vi sia un'egemonia di una parte sull'altra o che la primazia sia più orientata al centrodestra che a destra. In questo quadro rientrano una concezione critica di euro ed Europa, non la volontà di lasciare la moneta unica; un atteggiamento meno rigido nei confronti dell'immigrazione; una modulazione meno forte della fiscalità, al posto del 15% voluto da Salvini. Non è detto che questa linea possa pagare, sul piano elettorale, di fronte a quelle più fortemente critiche di Grillo e Salvini e a quella moderata del Pd. Dall'altro lato, c'è invece una destra sociale e nazionale che può essere trascinante per una discreta fetta dell'elettorato, fino a raggiungere i livelli del Front National in Francia, ma forse poco appetibile per i settori più centristi e moderati. Il centrodestra salviniano, insomma, può tirare dalla sua parte, sotto la coperta della protesta, anche un po' di elettorato M5S no-euro, ma lasciar scoperto un fronte (e partiti come Udc e Ncd) più propenso a ricollocarsi - come "male minore" - nel Pd. Il centrodestra "tosiano" (ancor più se guidato da altri leader più centristi) ha la possibilità di arginare i flussi in uscita verso sinistra, ma non troppe opportunità di sfondare a destra. Resterebbe la soluzione Berlusconi, che però ormai appare impraticabile anche per lo stesso Cavaliere. E non va dimenticato che la coesistenza fra le due anime principali della vecchia CDL è sempre stata difficile, per l’”elettorato estremo” (quello più centrista e quello di destra radicale): quando si votava col “Mattarellum” nei collegi uninominali, i candidati avevano di solito meno voti che nella parte proporzionale, proprio perché la scelta non era sostenuta dagli elettori politicamente più lontani dal prescelto. In un sistema, come l’”Italicum”, dove la competizione è addirittura fra singole liste (e il voto di preferenza vale solo dal secondo eletto in poi) la convivenza in un “partito-cartello” del centrodestra appare ancora più complessa, in prospettiva. Il garbuglio nel quale il centrodestra si è infilato e del quale il caso leghista veneto è aspetto esemplare ci fa capire che, alla luce dell'avvento di un sostanziale monocameralismo e di una legge elettorale che consegna la maggioranza assoluta a un solo partito, l'indefinibilità del centrodestra è un problema che riguarda anche gli altri competitori. Non solo per predisporre un posizionamento atto a trarne vantaggio o minor svantaggio, ma perché un conto è avere partiti competitivi persino se uno di essi (come il Tory della Thatcher e il Labour di Blair in Gran Bretagna) governa per parecchi anni, altro conto è avere un sistema con Biancaneve e i sette nani, senza alternativa possibile.

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali