Bilancio delle diciotto "comunali" nei capoluoghi
Il secondo turno delle elezioni comunali (che però è stato il primo in Sicilia) ha chiarito che la destra non ha bisogno di ritoccare al ribasso (al 40%) la quota del 50% più uno dei voti indispensabile per eleggere il sindaco al primo turno: quasi dappertutto, chi era in testa la prima volta si è confermato al ballottaggio. Le alchimie sul sistema elettorale per annichilire il centrosinistra non servono, anche perché ad affossare i candidati progressisti ci hanno già pensato gli elettori (tranne che a Vicenza, rondine che non fa primavera: Possamai ha vinto accentuando al massimo il suo profilo "civico", un po' come Tommasi l'anno scorso a Verona; per di più, il neosindaco ha chiesto alla Schlein di non fare campagna elettorale in città). Dopo il primo turno avevamo scritto su questa rivista che sarebbero stati i ballottaggi a dare un significato e un colore a questa competizione: è uscito il nero, su tutte le ruote di questa estrazione tranne due (Vicenza e Trapani, dove però nella coalizione del candidato sindaco di centrosinistra c'era una lista con esponenti della Lega) e Terni. Liquidare il voto in diciotto capoluoghi di provincia (c'è stata prima Udine, poi questi tredici, poi i quattro siciliani dei quali uno va al ballottaggio) come un semplice trionfo della destra è riduttivo. È vero, però, che aggregando ai voti di lista anche quelli siciliani abbiamo che la destra sale dal 44,5% delle scorse comunali e dal 40% delle politiche al 51,6%, mentre il centrosinistra passa dal 35% delle scorse comunali al 31,2%, il centro e le civiche dal 4,2% al 7,9%, il M5s dal 10,7% al 3,7%. Il vantaggio della destra (oggi il 21,4%, contro il 13,4% delle politiche e il 9,5% delle comunali precedenti) non è una semplice "onda lunga", ma la replica amplificata di quanto era già accaduto nel 2018, quando il centrosinistra era andato in difficoltà soprattutto nelle ex zone rosse. È un problema strutturale che si risolve solo dove (Brescia, Vicenza e la Verona dello scorso anno) ci sono radici e l'apporto di forze sociali civiche (le grandi città metropolitane sono un'altra cosa, perché il Pd resiste ancora, come si è visto a suo tempo a Roma, Torino, Napoli, Milano). Nei capoluoghi medi o piccoli (Ancona) la ztl non basta più. C'è poi da considerare che la destra ha vinto perché ha imparato ad usare il sistema elettorale che - paradossalmente - vorrebbe cambiare. Per decenni, il centrosinistra aveva candidati forti che trainavano le liste, mentre il centrodestra ne aveva di deboli, che si facevano trainare: questo faceva la differenza, unita alla solita disaffezione dell'elettorato di destra al ballottaggio. Queste condizioni, stavolta, non si sono verificate: la destra presentava sindaci uscenti e candidati considerati più credibili (in genere): nei sette capoluoghi dove c'è stato il ballottaggio gli esponenti della destra non solo hanno conservato i voti del primo turno in cinque casi, aumentando i consensi, ma la rimonta di quelli di centrosinistra è stata solo pari a complessivi 13766 voti contro i 10261 guadagnati dai rappresentanti della destra. Lo stesso Possamai, pur vincendo (perché era già avanti al primo turno) ha preso 1520 voti in più contro i 2049 conquistati dal sindaco uscente. Dove la destra ha perso voti rispetto al primo turno ci sono stati due esiti non sfavorevoli: a Terni ha vinto il civico (che però è anch'egli di destra) mentre a Brindisi il vantaggio era forte e ha permesso comunque la vittoria. Migliore scelta dei candidati, rimobilitazione dell'elettorato al secondo turno: questi sono stati gli ingredienti del successo della destra. Poi, certo, c'è stato anche il clima generale. E c'è stato il fattore M5s: se un partito prende alle politiche percentuali da Psi anni Ottanta ma alle amministrative prende quanto il Pli di allora c'è forse da farsi qualche domanda. Si può fondare un'alleanza locale con un partito il cui elettorato - per i tre o quattro quinti - defeziona e si astiene anziché votare la lista pentastellata? Alle politiche il discorso del "campo largo" può avere - a seconda dei gusti - un suo senso, ma alle amministrative allearsi col M5s non serve praticamente a niente. Nei diciotto capoluoghi, inoltre, il Pd ottiene lo stesso 14,4% delle scorse comunali (le civiche migliorano dell'1,3%, invece) mentre alle politiche aveva il 19%. Si può dire che - ricalcolando parte dei voti delle civiche, il partito democratico è sempre fermo sulla stessa quota delle politiche, circondato però da alleati numericamente deboli. La Meloni ha invece una coalizione di destra con tre soggetti medio-piccoli (FI 6,4%, Lega 7,4%, centristi 2,5%) ma FdI è al 14,8% e soprattutto le liste del sindaco e le altre civiche di area hanno il 20,4% (16,6% alle scorse comunali) contro il 13,2% (17,6%) di quelle di centrosinistra). In sintesi, le "altre liste" civiche e del sindaco di destra danno alla coalizione il 6,2% in più (2018: 1% in meno) di quelle del centrosinistra: sono sette punti persi rispetto alle scorse comunali (il divario è così passato dal 9,5 al 21,4%, in gran parte per questo motivo). La destra vince, perciò, sia perché ha imparato dopo trenta anni a usare i meccanismi delle comunali, sia per le oggettive difficoltà di un centrosinistra che non ha alleati che possano irrobustirlo (né allargandosi al centro, né allargandosi a sinistra) e che è fermo sulle sue posizioni, quando va bene.
di Luca Tentoni
di Paolo Pombeni