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24 aprile 2024
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Attenti alle parole

Paolo Pombeni - 12.10.2022
Meloni

Delle parole si fa un uso spregiudicato, tanto ormai è in crisi ogni linguaggio comune codificato. Ciascuno, come si dice volgarmente, un po’ se la fa, se la racconta e se la crede. Nelle more di una politica che, tanto per non smentirsi, si incaglia sui nomi (del futuro segretario del PD, dei futuri ministri), siamo colpiti da un ritorno di slogan che ci pare usino i termini con scarsa consapevolezza di cosa possano significare.

Ha stupito per esempio l’inno di Giorgia Meloni, parlando ad una convention dello spagnolo Vox, ad una “Europa dei patrioti”. In sé la definizione è ambigua, perché reggerebbe anche se volesse dire esattamente il contrario di quel che intende la leader di FdI. Infatti, è plausibile che esista chi considera l’Europa la sua “patria” e nel difenderla si senta pertanto patriota. Del resto, è quel che è successo, e che magari si cerca di far risuccedere nel nostro paese: la patria è il comune o la regione in cui siamo nati, o è l’Italia nel suo insieme? Naturalmente sappiamo bene che si tratta di un artificio retorico per sottolineare “il noi” di partito: nella sinistra ci si chiamava “compagni”, nella DC “amici”, anche la destra deve avere qualcosa di simile e siccome una certa vulgata vuole che le sinistre e per certi versi i cattolici siano “internazionalisti”, la destra per reazione vuole riproporre “la patria”. Che poi questo di per sé non abbia necessariamente legame col sovranismo e neppure col nazionalismo (Mazzini patriota era, ma certo non nazionalista) è una questione da studiosi che non turba la scelta di un linguaggio che serve solo come strumento per creare alla buona un “noi” e un “loro” ad uso della comunicazione.

Più preoccupante l’utilizzo antistorico che si fa nel PD di termini come socialdemocrazia e laburismo. Sono termini impiegati dalle correnti di quelli che intendono opporsi ad una presunta svolta riformista-moderata che sarebbe proposta al partito. Eppure, il termine socialdemocrazia è stato usato per un secolo almeno come una specie di insulto per connotare le componenti che rifiutavano il massimalismo e poi il comunismo. Qualcuno ricorderà lo sdegno con cui nel PCI anche ai tempi di Berlinguer si attaccava chi proponesse al partito che stava ormai abbandonando marxismo e comunismo di riconoscersi nelle “socialdemocrazie europee”: quello mai, il PCI era altra cosa. Per la verità socialdemocratici erano proprio i partiti che avevano rifiutato coscientemente il massimalismo, abbracciando invece la partecipazione a quello che oggi viene definito come un liberalismo inclusivo e una democrazia negoziale.

Quanto al laburismo, la storia del partito britannico che si è fregiato di quel titolo è quella di una forza che pur essendo nata in buona parte come partito dei sindacati operai è poi stata forgiata progressivamente dai suoi leader e intellettuali che ne hanno fatto un partito della nazione. Certamente nel laburismo britannico al potere c’è stato poco massimalismo operaista, anzi in quei frangenti della sua storia in cui ha inclinato a tornare su quei lidi (da ultimo con Corbyn) gli è andata malissimo e oggi il nuovo leader Starmer lo sta riportando con successo sulla via di una componente riformista che non ha paura di definirsi di centro.

Certamente pieno di equivoci è anche il riferimento al progressismo e al riformismo. Il primo termine è ora riportato in auge da Conte e dai Cinque Stelle che lo usano per affermare una loro superiorità sulla sinistra tradizionale. Peccato che storicamente la fiducia nel “progresso” non si sia fondata su una confusa aspirazione al cambiamento della situazione esistente, ma in una analisi che voleva essere “scientifica” delle leggi esistenti nell’evoluzione umana, che non è un mutamento caotico e senza direzione, ma che si ritiene sia un progredire in conoscenze che consentono un miglioramento razionale e non utopistico della convivenza umana. Cosa ci sia di razionale e scientifico in quanto prospettano tanto i Cinque Stelle quanto vari altri movimenti demagogico-populisti è tutto da dimostrare.

Un’ultima questione riguarda la faccenda del riformismo impropriamente presentato come una tendenza “di centro” che si contrapporrebbe tanto alla destra quanto alla sinistra. In realtà il riformismo nasce nella sinistra come una contrapposizione alla tesi che la trasformazione sociale debba avvenire attraverso la rivoluzione, sostenendo che mentre questa genera disastri e squilibri (con il perenne rischio del totalitarismo giacobino), il cambiamento deve avvenire attraverso riforme che siano compatibili con l’evoluzione della società e che si inseriscano in essa accettando anche il prezzo di un avanzamento per gradi successivi. Come si vede in questo non c’è nulla di “centrista” nel senso di un moderatismo orientato alla mediazione al ribasso e contenti così.

Certo il lettore si chiederà che senso abbia porsi in questi tempi così complicati interrogativi sull’uso dei termini, considerando anche che la retorica politica è abituata a fare un utilizzo piuttosto strumentale e spregiudicato delle parole. Ci si permetterà di obiettare che se accettiamo di cadere nella confusione delle lingue renderemo più difficile la comunicazione che è alla base della possibilità di costruire dialoghi e comprensioni reciproche. Cioè quella cosa di cui la vera politica ha un bisogno vitale.