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Antistatalisti e ferventi pro mercato, attenti al ridicolo!

Gianpaolo Rossini - 20.12.2017
Enav

Una schiera, non piccola e attivamente presente sui media, di economisti e politologi vive intensamente gli anni 80 e 90 del secolo scorso quando si forma convinzioni e lancia analisi teoriche.  Si tratta di anni attraversati da una radicale furia iconoclasta nei confronti della presenza dello stato (settore pubblico) nell’economia e di una parallela idolatria del mercato, ritenuta l’unica istituzione economica che consente democrazia ed efficienza nella produzione e nella distribuzione di risorse. Queste opinioni diffuse alla fine del secolo scorso sono suffragate dalla rumorosa caduta nel 1989 delle economie ex comuniste legate alla Russia affette da cronico statalismo.  Il trionfo pacifico delle democrazie di mercato di quegli anni non è però privo di ombre. Nella seconda metà degli anni 90 molte delle baldanzose convinzioni economiche maturate negli anni precedenti vacillano. Gravi crisi sistemiche toccano in successione diverse aree del pianeta a partire dall’America Latina per passare poi ad Asia, Russia, Turchia, di nuovo America Latina con Brasile  e Argentina, nel nuovo secolo, culminando nella grande depressione che investe prima Usa, poi Europa e altre parti del globo fino ai giorni nostri. Grandi istituzioni internazionali, come il Fondo Monetario internazionale, Banca Mondiale, schiere di economisti fanno tesoro dell’esperienza, ammorbidiscono e talvolta mutano radicalmente la loro posizione nei confronti dell’intervento dello stato. Tante le ragioni. Una su tutte: nessuna di queste crisi, compresa l’ultima dei mutui subprime scoppiata negli Usa nel 2008 e dalla quale non ci siamo ancora del tutto risollevati, nasce da un esagerato intervento dello stato nelle economie. Al contrario molte delle aree più duramente colpite come Islanda, Irlanda e Usa sono campioni di regole lasche e di ridotto intervento dello stato. Se non bastasse in tutti questi casi la soluzione  viene da un costoso (per i cittadini) intervento del settore pubblico (Stato). Tutti i settori da quello bancario a quello automobilistico vedono rinazionalizzazioni parziali o totali, che in certi casi devono essere persino ripetute più volte (ad esempio la Royal Bank of Scotland).

Dunque  che cosa significa oggi proclamarsi antistatalisti o a favore del mercato? A dire il vero poco o niente. Più o meno quanto può significare il presunto collocarsi a sinistra del PD da parte degli ex MDP (Messi Da Parte) di D’Alema o dei LEU, la nuova  ONG di Grasso e Boldrini. Oltre il faceto, per capirci meglio, dobbiamo  vedere i singoli punti che hanno nelle settimane passate fatto risorgere gli antistatalisti.

Caso 1 . Vendita da parte del ministero dell’economia alla CDP di quote di Eni ed Enav. Si tratta di una forma di privatizzazione parziale che serve per alleggerire il peso del debito pubblico del  Bel Paese. Gli antistatalisti  strillano che si tratta di una finta privatizzazione in quanto CDP è una novella IRI controllata da soggetti pubblici.  A questi critici si può rispondere in tante maniere. La prima: la mossa del governo per ridurre il debito pubblico è dovuta ad una falsità contabile alla quale in Europa ci dobbiamo inchinare.  Si tratta del debito pubblico di un paese, ahimè,  sempre espresso in termini lordi mentre la corretta definizione dovrebbe essere in termini netti, come avviene per tutti gli operatori privati, imprese etc..  Tralascio la ragione, tutta intrisa di ideologia antistatale, per cui questo vizio contabile non riusciamo a toglierlo di mezzo.  Esistono però calcoli di Ocse e CIA (si proprio la CIA delle spie) che stimano i debiti pubblici netti (quello italiano è poco sopra il 105%). Ma in Europa nessuno se ne cura e si corre dietro a questa bandiera sfilacciata del debito pubblico lordo. La reazione legittima del nostro governo (e di quelli precedenti) a questa fake news finanziaria è la creazione della CDP e del suo uso per spostare risorse pubbliche strategiche  dal conto pubblico a quello di una agenzia pubblica ma i cui conti sono sganciati da quelli dello stato. La CDP, con il linguaggio di ieri, è una sorta di nuova Iri. Con quello di oggi è il fondo sovrano italiano. Uno strumento di cui ormai quasi tutti i paesi del mondo sono dotati, in primis quelli del vicino e dell’estremo oriente.  Forse se la CDP fosse nata un po’ prima avremmo evitato privatizzazioni-svendite  deleterie come quelle della telefonia e delle autostrade,  che hanno spinto il nostro paese indietro di anni nelle dotazioni infrastrutturali, arricchito solo alcune famiglie che in questo processo hanno messo le mani, impoverendo sotto il profilo patrimoniale e reddituale i conti dello stato. Chi oggi bolla come stataliste le misure di passaggio di quote del ministero dell’economia di Eni ed Enav, o non vede o fa , purtroppo, finta di non vedere.

Caso 2:  da un po’ di tempo si ripetono interventi da parte di esponenti della Chiesa che riguardano l’apertura di ipermercati  e negozi nei giorni festivi. A questi interventi fa eco il leader 5 Stelle Di Maio associandosi alle critiche del clero. Non è chiaro quali siano le motivazioni della presa di posizione dei 5 Stelle: sotto elezioni molte ragioni finiscono per sfuggire. Ma di certo è stato toccato un problema. Chi bolla questi interventi come retrogradi o anti mercato intona un ritornello ideologico che poco ha a che vedere con il funzionamento del mercato. Nessuno può affermare che i mercati funzionino bene solo se le convinzioni morali e religiose sono messe da parte. Anzi al contrario c’è una crescente letteratura e indagine sul campo che dimostra il contrario, ovvero che mercati nei quali gli individui agiscono seguendo canoni etici funzionano meglio per tutti, sono spesso più efficienti e hanno bisogno di meno regole. E allora perché non essere pronti a discutere con sindacati e aziende questo tema? Personalmente trovo un po’ triste, a causa della mia cultura italiana, vedere gente che va a al supermercato la domenica mattina  invece di dedicarsi alla famiglia, agli affetti, allo sport, al divertimento sociale, a pratiche religiose per chi le approva. Certo,  abbiamo servizi e attività che non si interrompono di domenica, ma questo viene riconosciuto a chi le espleta in termini di retribuzione e soprattutto si tratta di settori specifici e limitati. Da migliaia di anni culture e religioni dedicano un giorno su sette al riposo e ad altre attività. Insistere su questo non mi sembra abbia alcuna relazione con l’essere o meno a favore del mercato.

Caso 3: riguarda la tassazione dei giganti del web della quale ho scritto su queste colonne. Qualche liberista e pro mercato nelle scorse settimane criticava il governo per la volontà di tassare i giganti del web, che oggi sfuggono in maniera esorbitante al fisco nazionale, imponendo una tassa – peraltro minima – sul fatturato. Mi sembrava questa una ipotesi ragionevole e non troppo complicata da applicare. Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore scriveva che una tassa del genere sarebbe stata distorsiva e avrebbe allontanato gli investitori stranieri dall’Italia. Meglio sarebbe stato iniettare più mercato che avrebbe giovato, come una dormita fa passare tutto, cancro compreso,  nella canzone del mitico Jannacci.  Chissà se qualcuno ha idea di come si possa far concorrenza a Facebook.  Sarei curioso di saperlo. Meglio sarebbe stato se un po’ di tempo fa imprese pubbliche come la Rai non avessero intrapreso una brutale e martellante campagna pubblicitaria a favore di Facebook alla quale purtroppo nessuna associazione consumatori o antitrust ha reagito. Oggi parlare di più mercato contro un colosso che capitalizza ormai quasi quanto il PIL tedesco è un po’ ridicolo e ricorda la vignetta di Schultz in cui Linus pesca seduto su uno scoglio mentre sta per essere investito da un’ondata terribile e dice a sé stesso “Relax and keep calm”.  A rendere ridicola  questa posizione dei pro mercato, più realisti del re, è giunta  come un fulmine a ciel sereno una dichiarazione di qualche giorno di Facebook che ritiene corretta la proposta della tassa sul fatturato e si è detta disposta a pagare in proporzione all’attività in ciascun paese.

Insomma, antistatalisti e pro mercato acritici, attenti al ridicolo.