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Alle origini del "caso italiano": il voto del 4 marzo (1)

Luca Tentoni - 06.10.2018
Copertina libro

A sette mesi dalle elezioni politiche del 4 marzo la maggioranza Lega-M5S sta affrontando la prova più difficile, quella relativa ai conti pubblici. Al di là delle valutazioni e degli aggiornamenti su quanto sta accadendo, è opportuno soffermarsi in questa sede sul voto e sulle motivazioni delle scelte elettorali degli italiani, dalle quali discendono direttamente le decisioni governative di questi giorni e, di conseguenza, le reazioni internazionali. Nelle ultime settimane sono stati pubblicati tre volumi che - partendo da angolazioni diverse e con approcci differenti - analizzano il voto del 4 marzo: c'è un'opera più generale ("Le divergenze parallele", di Bordignon, Ceccarini e Diamanti - Laterza) che descrive come l'Italia sia passata "dal voto devoto al voto liquido" e ci sono due saggi più specifici, uno dedicato alla Lega ("La Lega di Salvini", di Passarelli e Tuorto - Il Mulino) e l'altro al M5S ("Il Movimento 5 stelle: dalla protesta al governo", di Biorcio e Natale - Mimesis). Li analizzeremo in un viaggio in tre puntate dedicato al voto del 2018.

La disamina di Luigi Ceccarini parte da lontano, dalle elezioni del 2006 e del 2008, delineando una tendenza di lungo periodo: si passa da una situazione nella quale "due votanti su tre affermavano di non avere mai avuto dubbi verso quale formazione orientare il proprio voto" al 2013, quando questa componente di elettorato "fedele" si riduce sensibilmente (del resto, l'"appartenenza" tipica della Prima Repubblica era già venuta meno negli anni Novanta per la Dc e un po' più tardi per gli eredi del Pci). Così, spiega Ceccarini, "gli elettori senza dubbi sono scesi dal 66-67% del 2006-2008 al 54% del 2013, per ridursi ulteriormente, nel 2018, al 50% (...) ma quello che rende particolarmente interessante il dato sui tempi della decisione di voto è la componente dei votanti last minute, che hanno dichiarato di aver deciso il giorno precedente o lo stesso giorno in cui si sono recati alle urne". Si tratta di circa il 13%, oltre quattro milioni di votanti. Ma qui, leggendo bene i dati, si ha la netta sensazione che il vero mutamento sia avvenuto fra il 2008 e il 2013. Nel 2018, infatti, la percentuale di chi ha scelto il partito il giorno prima del voto o il 4 marzo è rimasta al 13% come cinque anni prima, mentre quella di chi ha deciso nell'ultima settimana è salita dal 10 all'11% e quella di chi si è convinto nelle due o tre settimane prima del voto è passata dal 10 al 12%. In totale, quindi, se nel 2013 la quota di chi non aveva già un'idea ben definita a 21 giorni dal voto era pari a un terzo dei votanti, nel 2018 la percentuale è salita al 36% (quella dei votanti è però lievemente diminuita in valore assoluto, rendendo ancora più marginale la variazione del "voto last minute"). In altre parole, ciò che è accaduto il 4 marzo non è stato frutto di un mutamento fulmineo superiore a quello del 2013, ma - ancora per i due terzi dell'elettorato - a qualcosa che si è andato sedimentando nelle vicende dei cinque anni della legislatura, con i bruschi mutamenti intervenuti già fra il 2013 e le europee del 2014 e poi - in senso opposto - fra il 2016 e il 2018. Per paradosso, gli elettori più decisi (che non sembrano sfiorati dalle sirene della campagna elettorale) "sono quelli del Pd (62%), poi del M5s (58%), Lega (55%) e FI (54%)". Altra cosa, come spiega Ilvo Diamanti, è la fedeltà al partito fra le elezioni politiche del 2013 e quelle del 2018: a consuntivo, riconfermano il voto 49 elettori su cento del Pd, 44 su cento di FI (ex PDL), 69 su cento della Lega e 65 su cento dei Cinquestelle. Il vero beneficiario del voto "last minute" (che nel 2013 fu il M5S) pare essere stato il Carroccio, che secondo Ceccarini ha guadagnato 850 mila voti (600mila fra il 3 e il 4 marzo, quanto basta per spiegare le dissonanze fra i sondaggi precedenti al "black out" e il dato finale effettivo) negli ultimi sette giorni di campagna elettorale. Salvini ha intercettato soprattutto voti provenienti dall'ex PDL, che sono rimasti nell'area di centrodestra ma hanno scelto un leader percepito come molto più forte (penalizzando, per la prima volta in un quarto di secolo, il fondatore della CDL Berlusconi). Approfondiremo meglio questo aspetto occupandoci del volume di Passarelli e Tuorto. Restando su "Le divergenze parallele", invece, ci sembra importante dare conto della spiegazione che Ceccarini dà del voto del 4 marzo in termini sociali, economici e politici. L'autore suddivide il corpo elettorale in quattro gruppi: 1) i vincitori della globalizzazione, che sono per una società aperta e cosmopolita e si dichiarano soddisfatti della propria situazione economica familiare (21%); 2) i perdenti cosmopoliti (15%) che si differenziano dai precedenti per la valutazione negativa dello "stato di salute economico" della propria famiglia; 3) i vincitori comunitari (36%), che preferiscono una società chiusa ma non hanno problemi sul piano della finanza personale; 4) i perdenti della globalizzazione (25%) che versano in condizioni personali non soddisfacenti e sono contrari alla società aperta e cosmopolita, dalla quale si sentono minacciati. Queste quattro "famiglie sociopolitiche" hanno compiuto scelte di voto differenti, dimostrando che l'esito del 4 marzo è stato figlio non solo della crisi e degli effetti di medio-lungo termine che questa ha provocato, ma anche della diversa (e confliggente) posizione degli italiani sia sull'immigrazione, sia sulla globalizzazione. Ceccarini spiega che "i vincenti si riconoscono in modo più deciso nello spazio ideologico e identitario di sinistra e di centrosinistra, in particolare verso il Pd". I "vincitori comunitari", invece, "in ragione di un orientamento verso una concezione di società chiusa, tendono in misura superiore alla media ad auto-definirsi di destra o di centrodestra e a rimarcare la centralità della nazione; coerentemente, ripongono fiducia in Salvini, Berlusconi e sono più orientati a favore della Lega". Il M5s "raccoglie voti anzitutto tra i due tipi" di quelli che - per convenzione avalutativa e non in senso spregiativo - Ceccarini definisce "perdenti". È "in particolare dai perdenti della globalizzazione che arriva con più forza il voto verso il M5s". In definitiva, "è tra i due tipi di perdenti che è maggiore la componente post-ideologica degli elettori e il M5s si configura come il partito più votato. È inoltre interessante notare che la linea di frattura passa anche attraverso la considerazione del leader. Tra questi la sfiducia si orienta in modo deciso verso Renzi, mentre la fiducia viene accordata a Salvini". La sconfitta del Pd, insomma, può e deve essere ricercata anche in questa direzione: non è un caso, del resto, come chi scrive ha sottolineato anche in un suo recente volume ("Capitali regionali" - Il Mulino) che i democratici raccolgano i loro migliori risultati non solo nelle maggiori città del Paese, ma anche nei quartieri più agiati delle metropoli. Come spiega Luigi Ceccarini illustrando lo studio dell'osservatorio elettorale Demos-LaPolis, il 43% dei votanti Pd è composto da "vincitori della globalizzazione", contro il 9% dei leghisti, il 17% dei Cinquestelle. Per contro, fra i vincitori comunitari spicca la Lega (il 49% dei consensi viene da questo gruppo di cittadini) e infine, su cento elettori di ciascuno dei partiti maggiori, i perdenti cosmopoliti e i perdenti della globalizzazione sono solo il 23% fra i votanti Pd, ma salgono al 45% fra i leghisti e al 50% fra i Cinquestelle. In pratica, a nostro avviso, si tratta di un fenomeno che appare non troppo dissimile da quello francese (anche se culture politiche e dinamiche strutturali diverse, come la tendenza a fare fronte contro il lepenismo, hanno permesso a Macron di imporsi alle elezioni presidenziali del 2017 ed al suo partito di "pescare voti" in un bacino simile a quello del Pd di oggi, ma più ampio e comprendente settori del centrodestra moderato). Per quanto riguarda i due partiti vincitori delle elezioni e attualmente al governo, Fabio Bordignon pone l'accento su come siano i sentimenti di disagio e il risentimento nei confronti delle istituzioni, in particolare quelle europee, ma anche verso i partiti, i tratti comuni ai giallo-verdi: "l'insofferenza verso qualsiasi forma di mediazione politica è un fatto sempre più evidente, in Italia e, più, in generale, nello scenario globale della democrazia. L'esaltazione del popolo puro al cospetto delle élite corrotte è un elemento molto visibile nel discorso politico di entrambi i protagonisti della scena post-voto, e visibile nella prospettiva dei loro elettori. Il loro successo si lega ad un evidente problema di responsiveness della democrazia contemporanea: la sua incapacità di fornire risposte adeguate ai problemi dei cittadini e alle tensioni che accompagnano le trasformazioni della società. Ma riguarda anche un deficit di democrazia che sempre più, agli occhi di molti elettori, sembra caratterizzare i regimi democratici". (1-Continua)