Ultimo Aggiornamento:
21 giugno 2025
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Alla ricerca dell’escamotage elettorale

Paolo Pombeni - 07.05.2025
Referendum 2025

Il mondo è senz’altro impegnato in cose più serie e talora drammatiche (guerra russo-ucraina, tensione in crescita in Medioriente, Conclave, ecc.), ma la politica italiana va avanti, come è anche inevitabile che sia. Oscilliamo sempre fra teatrini che parlano di un paese immaginario a seconda del narratore e necessità di venire a capo di scadenze che non si possono lasciare senza risposta.

A questa seconda tipologia va senz’altro ascritta la convocazione del Consiglio di Difesa che deve in qualche modo fare i conti con le problematiche relative ai progetti di difesa europei. Si tratta di un tema più che scivoloso, non solo per le spaccature che ci sono nella stessa maggioranza di governo (e tralasciamo il caos in cui sulla questione versano le opposizioni), ma per i problemi di spesa che comporta. Tuttavia l’Italia non può far finta di nulla se non vuole indebolire la sua capacità di presenza a livello internazionale, specie in questo momento che è piuttosto favorevole per ciò che riguarda il nostro paese. Vedremo se Mattarella, che presiede il Consiglio di Difesa, riuscirà a guidare il confronto verso un esito positivo.

Sul primo fronte siamo sempre alle prese coi rumors su un possibile ricorso ad elezioni anticipate. La premier Meloni indirettamente è entrata in campo con un messaggio cifrato alla sua maggioranza quando, vantando come è naturale quelli che ritiene essere i successi del suo governo, ha annunciato di volersi candidare per un secondo mandato. Non è la semplice intenzione di continuare in una esperienza per lei indubbiamente ricca di soddisfazioni, ma è l’avviso chiaro di voler incentrare sulla sua persona la sfida elettorale, quando sarà (e magari prima della scadenza naturale).

Questa prospettiva si combina con l’ennesima proposta di riforma elettorale che è stata presentata dai capigruppo della maggioranza. Sebbene non se ne conosca ancora il testo, le anticipazioni parlano di un sistema basato su una competizione forse a base proporzionale con qualche appendice di collegi uninominali, ma con obbligo per i partiti che competono di indicare un candidato premier ed eventualmente di coalizzarsi intorno ad uno stesso. Sarebbe una specie di anticipo della cosiddetta riforma del premierato, anticipo peraltro, come sempre, confuso e pasticciato.

Il fulcro è il premio di maggioranza alla coalizione il cui candidato premier risultasse vincente. Ma qui inizia uno degli scogli in cui si andrà a sbattere. Come si determinerà il vincitore? La elementare logica di una democrazia a base largamente partecipativa direbbe colui che ha raccolto almeno la metà più uno dei voti. Ove nessuno raggiunga quella soglia si andrà al ballottaggio fra i due più votati.  Ma qui ci si scontra con i calcoli strumentali della maggioranza di centrodestra, che ritiene di essere in grado di avere il maggior numero di consensi al primo turno perché è compatta mentre le opposizioni sono divise, ma di rischiare di perdere al ballottaggio perché a quel punto le opposizioni si uniscono per impedire la vittoria del centrodestra.

Per questo viene proposto che al primo turno possa già risultare vincitore chi ottiene almeno il 40% dei voti, portandosi dietro il premio di maggioranza che assegnerebbe alla sua coalizione il 55% dei seggi. In questa sede non è possibile addentrarsi nelle molte tecnicalità che rendono questa proposta difficilmente accettabile, inclusi possibili profili di incostituzionalità (naturalmente per un giudizio serio bisognerà aspettare di vedere un testo). Ci limitiamo ad una considerazione generale che ci sembra più importante delle furberie dei macchinisti delle tecniche elettorali.

In un quadro che vede un indebolimento crescente della partecipazione politica, quando persino ad importanti elezioni comunali in città con tradizioni di partecipazione intervengono la metà degli elettori, un meccanismo come quello che si sta delineando serve solo ad incrementare la politica come lotta di fazioni. Nessuna spinta a creare le premesse per la ricerca di un consenso il più largo possibile, il che significa per i partiti, destra o sinistra che sia, rinunciare all’organizzazione solo dei loro fan-club e puntare invece su chi può fare sintesi.

Il meccanismo della ricerca almeno della metà più uno dei consensi con l’obbligo di arrivarci se non altro attraverso un ballottaggio fra i due più votati a questo punto. Sostenere che così non è non ha basi fattuali: certo non sempre il consenso di sintesi è il migliore, ma è sempre meno pericoloso del colpo di mano per cui una parte inferiore alla metà del corpo elettorale pretende di rappresentarlo tutto. Nella discussione di tempi passati si chiamava totalitarismo, perché si fondava sul principio che ci fosse una parte che poteva da sola rappresentare il tutto. I risultati non sono stati raccomandabili.

Poi naturalmente ci sono molti problemi che non sarà comunque facile sbrogliare. Il più grosso è che abbiamo un sistema bicamerale, per cui il candidato premier dovrebbe comunque superare la soglia sia nella consultazione per la Camera, che in quella per il Senato, e non vediamo come si possa risolvere il caso che da una parte abbia successo e dall’altra no. Acrobazie normative per superare questi problemi sono sempre possibili, ma gli Azzeccagarbugli a volte possono essere discreti avvocati, mai sono dei buoni legislatori.

In una fase delicatissima come quella che il mondo sta attraversando a chi giova indebolire il nostro sistema per compiacere alla volontà di partiti sempre meno capaci di fare sintesi delle esigenze profonde del paese? Non è una domanda retorica: il fenomeno dell’astensionismo elettorale è una spia eloquente del disagio in cui vivono i cittadini.