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Adesso il gioco si farà più duro

Paolo Pombeni - 23.06.2021
Von der Leyen PNRR

Arriva in Italia la presidente von der Leyen e ci porta l’approvazione del nostro PNRR: meglio del previsto si fa trapelare, perché in tutte le categorie della valutazione tranne una abbiamo avuto una A (punteggio massimo) e solo in una un B. Significa che fra non molto arriveranno i primi anticipi sui fondi che ci spettano. Ma significa anche che adesso si deve partire e qui il gioco si farà duro.

Gli esperti non legati ai partiti che hanno esaminato il piano mettono in luce che la situazione non è tutta rose e fiori, perché nonostante la cifra rilevante si è dovuto suddividerla per un numero molto alto di necessità per cui è facile sentire lamentele, non infondate, per i pochi fondi destinati a questo o a quel settore di intervento. Certo si sono fatti passi da gigante rispetto alla versione del piano elaborata da Conte: lontani dai taccuini molti esperti confessano che era un disastro, ma che non si deve dire per non turbare la pace di una coalizione sempre coi nervi a fior di pelle. Ai Cinque Stelle non si deve fornire l’occasione per creare difficoltà oltre quelle che già stanno mettendo in campo: vedi alla voce riforma della Giustizia.

Il problema vero che si presenta adesso è quanto questo contesto politico reggerà a fronte di scadenze elettorali che comportano confronti e test di tenuta (amministrative e quirinalizie), anche se a stare alle dichiarazioni i partiti maggiori, per ragioni diverse, sembrano puntare a che si arrivi alla scadenza naturale della legislatura (quelli minori sono da sempre su quella linea, vista la drastica riduzione di seggi che comporta la riforma grillina ormai legge).

Da un punto di vista generale è ovvio che per quattro partiti chiave, Lega, Fi, Pd e M5S, poter fruire di un intervallo di due anni prima di affrontare la sfida delle politiche è molto utile. La Lega e Berlusconi (che non si sa quanto rappresenti tutta FI) vogliono arrivare a creare una qualche forma di integrazione reciproca. Salvini banalmente per compensare i suoi cali nei sondaggi e garantirsi un buon margine di vantaggio sulla Meloni e FdI. Berlusconi perché non riesce a rinunciare alla voglia di essere sempre il giocatore eccezionale che a poker rilancia al buio: adesso gli è venuta l’idea di creare il grande partito della destra sul modello dei repubblicani americani, dimenticando che ci ha già provato alcune volte, sempre con problemi e da ultimo con scarso successo.

Quanto al PD è ovvio che si ponga il problema di cosa sommare al suo attuale 20% (o giù di lì) per diventare competitivo con il centrodestra nella partita per il futuro governo. Il suo problema è che non ha molte possibilità di scelta. All’idea di conquistare da solo una maggioranza dominante, la famosa “vocazione maggioritaria” di Veltroni, non crede più nessuno. Allora quel che di un poco consistente si trova al momento su piazza sono solo i Cinque Stelle. Sulla base di una eventuale alleanza con il nuovo grillismo marcato Conte potrà poi fare delle profferte ai molti partitini che affollano il centro e l’estrema sinistra, mentre senza quella base si consegnerebbe solo alle faide che corrono fra quei cespugli secondo un copione già visto.

Il fatto è che, per dirla brutalmente, il PD di Letta continua a puntare all’alleanza con un partito che non si sa bene né cosa sarà, né se in quella nuova forma riuscirà a raccogliere un consenso abbastanza significativo da rendere fruttuosa l’operazione. E lasciamo da parte il tema del prezzo che il nuovo M5S chiederà al PD nel caso dovesse risorgere dalle sue sfortune attuali con forza sufficiente per porre delle condizioni.

Ovvio che in un quadro del genere tanto a Berlusconi e Salvini, quanto a Letta e Conte convenga non dover andare troppo presto alle urne, anzi possibilmente solo a fine legislatura nel 2023. C’è un lungo tratto di strada da fare e la domanda è se tutte queste forze siano in grado di reggere la fatica di questo cammino senza ricorrere per tenersi su alla droga dell’agitazione di parte (usiamo un termine più raffinato di quello che sarebbe proprio: della demagogia). Devono però fare i conti colla novità che adesso è in campo, cioè la prima fase di esecuzione del PNRR.

Si tratta di un’impresa che devono lasciare gestire a Draghi, che ne è il garante in Europa, ma nessun partito ha molta voglia di arrendersi a questa evidenza, perché ritiene che andrebbe a vantaggio del premier e non delle fortune elettorali di ciascuno. Però se non prestano un sostegno non diremo convinto ma almeno istituzionalmente responsabile all’attuale governo, l’intera operazione entrerà nel gorgo delle nostre debolezze storiche. La realizzazione del PNRR coinvolge burocrazie ministeriali, regioni, comuni, in un intreccio di interessi e di poteri che non sarà semplice tenere sotto controllo.

Draghi naturalmente sa il fatto suo, ma non ha poteri dittatoriali e si muove in un regime rappresentativo in cui molto passa per i canali dei partiti e quel che sta fuori spesso è nelle mani di consorterie e corporazioni che possono essere anche peggio. Se continua questo clima di contrapposizione spinta, se nessuno vuol rinunciare a piantare bandierine qui e là, sarà difficile che si riesca a dare la prova di quel “cambio di passo” che tutto il mondo si attende scommettendo sulle capacità dell’attuale premier e per l’Italia diventerà difficile marciare alla realizzazione di quella che potrebbe essere la sua seconda ricostruzione dopo quella postbellica.

Per queste ragioni pensiamo che stia iniziando il gioco duro e dobbiamo sperare che si sia in grado di reggerlo.