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22 anni dopo Dayton: Bosnia Erzegovina, il Paese che non c'è

Simona Silvestri * - 04.10.2017
Accordo di Dayton

La guerra è finita, andiamo in pace? A guardare la Bosnia Erzegovina di oggi la risposta è tutt'altro che positiva, nonostante le due decadi trascorse da quel 21 novembre 1995, quando gli Accordi di Dayton posero fine a uno dei conflitti più sanguinosi dalla Seconda guerra mondiale, dando il via a uno tra i fallimenti più clamorosi della politica internazionale del Novecento.

Quel giorno, sotto la supervisione delle potenze mondiali, Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e Alija Izetbegović – presidenti dei tre gruppi nazionali coinvolti nel conflitto, serbo, croato e bosgnacco - misero la parola fine a cinque anni di violenza e sangue, aprendo la strada a una pace fallace e problematica.

Oggi la Bosnia Erzegovina paga ancora a caro prezzo le decisioni di Dayton, a cominciare dalla suddivisione del Paese sulla base dell'appartenenza nazionale, che di fatto accettò, ratificandoli, i risultati della pulizia etnica realizzata tra il '91 e il '95. Da un punto di vista politico, i veri vincitori di Dayton furono quei partiti nazionalistici causa della guerra, usciti dal conflitto rafforzati e trasformatisi rapidamente in classe dirigente senza colpo perire. Un gruppo dirigente senza troppi scrupoli, che ha saputo sfruttare a suo favore l'ingestibilità amministrativa della struttura tentacolare costruita dagli Accordi, che all'interno di un medesimo Stato previdero - oltre al sistema di governo nazionale unitario - differenti sistemi giuridici, educativi ed amministrativi tra le due entità che compongono il Paese, la Federazione a maggioranza bosniaco-croata e la Republika Srpska, a maggioranza serba. Un moloch burocratico che, anziché lavorare per ricostruire il Paese, ha favorito il saccheggio sistematico delle risorse: nulla è rimasto indenne nell’assalto della diligenza. La corsa ad arraffare quanto più possibile, alla quale hanno partecipato anche potenze e gruppi economici europei, ha inciso negativamente sul fronte sociale, allargando ulteriormente il divario economico tra chi - la maggior parte delle persone – ha dovuto accontentarsi di poche centinaia di euro per sopravvivere, e chi ha invece disposto di ricchezze incalcolabili. In poco tempo, l’ossatura economica della Bosnia è stata sistematicamente spogliata di tutto quello che poteva essere sottratto.

Oggi la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha raggiunto percentuali altissime, intorno al 60%: le persone non vivono ma sopravvivono, con stipendi da fame e scarse tutele in una società fortemente deregolamentata, dove parole come nepotismo, corruzione e ingiustizia sociale sono la regola.

Salvo rare eccezioni, l’unico obiettivo della classe politica post Dayton sembra essere stato il mantenimento delle proprie posizioni di potere, attraverso il ciclico ravvivarsi della fiamma del nazionalismo e la radicalizzazione delle singole identità “etniche” a discapito di un’unica identità nazionale, proprio come prima della guerra. S’impoveriscono le persone, si svendono i beni pubblici e le aziende di Stato, si trascura il sistema scuola, sempre più depauperato e frammentato etnicamente, soffocando sul nascere le espressioni democratiche dei cittadini. Il risultato è 'il Paese che non c'è', una nazione non nazione, priva di una vera identità, spaccato su tutto, in preda ai facili populismi e alle costanti tensioni sociali: un po' come l'Europa, verrebbe da dire.

Al di fuori dei propri confini, oggi la Bosnia è oggetto di conversazione solo nel momento in cui viene messa al centro di ipotetici scenari geopolitici nei quali questa parte di Balcani  sarebbe la testa di ponte per il terrorismo islamico, una terra sempre più proiettata verso il vicino oriente. Lontano dagli occhi, ma non dal cuore di quell'Europa che guarda ai cugini balcanici come a un popolo bellicoso e rozzo, condannato a vivere per sempre nel caos. Ma la presenza nel bel mezzo del continente di uno stato incompiuto in cui vengono costantemente ignorati i valori fondanti di una comunità, come il rispetto della dignità umana, della democrazia e dei diritti umani,  non può reggere a lungo. Oggi come oggi la Bosnia rappresenta per l'Occidente e le potenze mondiali lo specchio del fallimento su cui riflettere per correggere le tante problematiche di una pace fragile che rischia di travolgere il Paese ma non solo. È tempo che anche la Bosnia diventi una Nazione basata sul rispetto dei diritti civili, con un solo alfabeto e un'unica scuola, uno stesso apparato governativo e giudiziario per tutti, nel pieno rispetto delle differenze. Questa è la sfida che le potenze, europee e non solo, devono cogliere per correggere l'empasse creato 22 anni fa. Nel pieno delle discussioni sull’allargamento della Ue anche al Paese balcanico – un processo lungo e difficoltoso che potrebbe non avere mai fine – come può l’Europa non mettersi in discussione rispetto a quanto non sta succedendo in Bosnia? A chi fa comodo che la situazione resti tale e la Bosnia rimanga un crocevia di interessi importanti e divergenti, di traffici criminali?

Dalla fine della guerra sono ormai trascorsi più di due decenni ma i nervi scoperti del Paese sono sempre più evidenti, senza che la politica sappia dare una risposta concreta alle richieste dei cittadini . A dimostrarlo, appena qualche giorno fa, l'ennesima occasione mancata, vale a dire la bocciatura, da Parlamento Bosniaco, di due proposte che avrebbero potuto testimoniare un vero cambio di passo: da un lato l'introduzione del reato di negazionismo per il genocidio di Srebrenica, dall'altra la proposta di negare ai criminali di guerra la possibilità di candidarsi a cariche rappresentative. Il tutto senza che nessuno, neppure quell'Alto rappresentante della comunità internazionale, garante delle condizioni di pace, battesse anche solo il minimo colpo.

Questa è la situazione con cui ci si avvia a ricordare tra poco, il 21 novembre, l'anniversario della firma degli accordi di Dayton. Dalla guerra sono trascorsi 22 anni ma da festeggiare resta ben poco, ancora una volta.

 

 

 

 

* Giornalista, ha recentemente pubblicato “Il Paese che non c'è. La Bosnia Erzegovina tra contraddizioni, transizione e diritti negati” (Infinito edizioni). Ha scritto di cultura, diritti, lavoro e cronaca sindacale per diverse testate tra cui Alibi, per essere Altrove, Articolo 21, La Sera di Parma, Blogo e Piazza Grande.