Vecchi e nuovi razzismi: Che fare?
Berlino, Istanbul e prima Parigi e Bruxelles sono vittime della spirale di violenza terroristica che da qualche anno si è abbattuta nella nostra quotidianità. A due anni dalla terrificante strage di Charlie Hebdo il coro unanime di condanna che ha coniato l’ormai conosciuto “Je suis“ sembra essere sostituito da una paura crescente che produce inesorabilmente un razzismo diffuso in varie frange delle società cosiddette occidentali.
Un razzismo che tuttavia non nasce all’indomani degli eventi tragici che abbiamo riportato. In realtà, da tempo la minaccia esterna si è posta come capro espiatorio per rinfrancare l’io dominante del razzista che ricostruisce la sua vittima secondo i propri bisogni. In questo quadro l’oppressione che si desidera esercitare è nei confronti dell’arabo musulmano in quanto straniero che avrebbe superato la presunta soglia di tolleranza. Così dall’indifferenza sostanziale (che già è una forma di rifiuto) nei confronti del migrante trasparente, le nostre società legittimano la “valorizzazione delle differenze biologiche a vantaggio del dominante”. Ne consegue una narrazione zeppa di mito e alibi in cui viene presentata una figura del migrante arabo o dell’arabo europeo che non fa altro che riesporre quell’orientalismo diffuso nell’epoca della colonizzazione ampiamente decostruito a partire dalla fine degli anni settanta da Edward Said e da molti altri intellettuali.
Una decostruzione che tuttavia non sembra aver mutatole nostre società vista l’espansione a macchia d’olio del discorso razzista. Si ripropongono vecchi miti legati all’ossessione di una presunta purezza che riconducono a una tragica storia recente in cui lo straniero è il diverso, perturba l’omogeneità sociale e provoca malessere.
Nell’era post coloniale riemerge quindi un’affermazione razziale che in alcuni paesi europei si era sopita, ma non era mai stata smantellata. La Francia, ad esempio, con il suo modello assimilazionista che sembrava rimuovere pregiudizi e discriminazioni non ha mai tenuto conto dei riflessi identitari di autodifesa del cittadino di origine straniera.
L’Italia forse potrebbe porsi con modalità differenti visto il proprio passato migrante. Ma in realtà quanto gli italiani hanno elaborato di questo passato? I migranti che oggi sbarcano nell’Isola di Lampedusa non fanno riaffiorare un passato familiare che forse si vuole dimenticare? Il migrante che giunge dal Nord Africa per mare non è in fondo l’alter ego di un siciliano che tra fine ottocento e inizio novecento partiva dalla Sicilia per sfuggire alle condizioni disperate in cui versava l’Italia andando verso quegli stessi porti da cui oggi partono tunisini, libici, marocchini…?
In questo quadro la reazione primaria è, parafrasando Freud di “una sporca bestia” cheaggredisce per respingere un aggressore che lo mette difronte al suo passato non risolto. Scatta così l’umiliazione, la denigrazione e l’annichilimento nei confronti dell’Altro. In quest’azione bellicosa il dominante utilizza un discorso articolato in cui prevalgono stereotipi, miti e diversità culturali. Così l’arabo in seno alle nostre società diventa “l’islamico “, “pronto alla violenza” e “pervaso da un eccesso di forza oltre ad essere maldestro” .A questo si aggiunge l’accusa biologica che vede nel “colore della pelle e/o nei tratti somatici” la manifestazione di una loro presunta aggressività. La stigmatizzazione nei confronti dell’arabo si manifesta anche attraverso l’invenzione lessicale che si fa più viva nel momento in cui s’intensificano i conflitti sociali. A tal proposito ecco alcuni esempi: l’arabo è connotato come islamico o islamista ( e non ci si preoccupa di definire le opportune differenze).L’arabo, se è musulmano, ha sempre un aggettivo accanto. L’arabo non può essere cristiano. L’arabo è jihadista, quindi pericoloso e terrorista.
Ma l’arabo può anche rappresentare l’eccezione quando improvvisamente il razzista riconosce le qualità di un particolare individuo e con stupore afferma “ ci sono brave persone ovunque”, rivelando con quell’“ovunque” una condanna per tutto il resto del gruppo. Come possiamo notare le motivazioni individuali non frenano la mediazione del sociale che ha ormai acquisito il razzismo come atteggiamento mentale.
In questo sappiamo che l’apprensione generata dalla diversità può sfociare nell’aggressività. Ma sappiamo anche che è fondamentale educare alla gestione dell’apprensione. E per farlo gli specialisti e gli addetti ai lavori hanno l’obbligo di condurre una battaglia sul campo al fine di risolvere quel corto circuito che ha allontanato le società dagli intellettuali.
Rimbocchiamoci le maniche.
* Leila El Houssi è docente di Storia dei paesi islamici presso l'Università di Padova
di Paolo Pombeni
di Leila El Houssi *