Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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Tangentopoli ci ha insegnato qualcosa?

Michele Iscra * - 14.04.2016
Tribunale

Con l’elezione di Piercamillo Davigo a presidente dell’Associazione nazionale magistrati si è ripresentata la questione del rapporto fra magistratura e politica. Non che il tema fosse mai venuto meno, ma naturalmente la personalità e la storia del nuovo presidente ha rinviato alla questione nei termini che sembrava fosse stata posta da quella stagione che è passata sotto il nome di Tangentopoli. Detto in estrema sintesi: se sia compito della magistratura e se essa sia lo strumento adeguato per reagire al decadimento della etica pubblica.

Naturalmente nessuno difende apertamente questa impostazione, trincerandosi dietro alla più neutra definizione dell’obbligo della magistratura di perseguire i reati. Ciò sarebbe inappuntabile se il problema potesse essere così semplice, perché è ovvio che se uno ammazza qualcun altro va perseguito, ci mancherebbe. Purtroppo in moltissimi casi la questione è molto più sfumata o perché si tratta di fattispecie ambigue in cui non è sempre chiarissimo da subito se siamo di fronte ad un reato o ad un comportamento che potrebbe anche solo essere considerato riprovevole sul piano appunto morale, o perché addirittura si tratta più che di reati consumati di comportamenti che potrebbero sfociare in reati ma che non sono ancora venuti per così dire a compimento.

Una serena discussione sul complesso problema di cosa significhi “affermare il diritto” (questo significa letteralmente giurisdizione) potrebbe essere di grande vantaggio per tutti e soprattutto per l’equilibrio di un sistema politico che è, nei regimi costituzionali, un meccanismo in cui, come si usa dire, “il potere limita il potere”, cioè ogni sede che sia titolare di un diritto di comando impedisce che ce ne sia una che comanda su tutti, senza però giungere allo scopo azzoppando le altre.

Il primo tema che andrebbe dunque affrontato è, ci si perdoni, la famosa questione della separazione fra magistratura inquirente (i pubblici ministeri) e magistratura giudicante. La ragione è banale: gli inquirenti non “affermano il diritto” (in parole povere non fanno sentenze), ma sottopongono fattispecie che essi ritengono aver leso il diritto ad una altra istanza che deve validare o respingere la loro ipotesi. E’ una distinzione che la ANM vede come il fumo negli occhi (tanto che gran parte dei suoi vertici proviene dalla sfera inquirente), ma è un problema di sostanza. Solo infatti con una distinzione fra i due ruoli si potrà evitare che una incriminazione da parte degli inquirenti tenda a trasformarsi di fatto in una pre-sentenza di colpevolezza. Infatti questo in definitiva deriva dal fatto che anche i PM vogliono essere considerati “giudici” e dunque depositari della stessa potestà dei loro colleghi giudicanti.

Non si dica che non è così, dal momento che anche a livello politico c’è una tendenza a considerare come incandidabili (cioè pre-condannati) tutti gli inquisiti (e così è non solo a livello politico).

Il secondo tema è la questione della lentezza dei processi. Questo è un tema particolarmente delicato perché dipende in gran parte non da cattiva volontà di qualcuno ma da fattori oggettivi: il carico enorme di processi che grava sulle spalle dei magistrati e le bizantinerie di sistemi processuali che scambiano i diritti della difesa per diritti all’intralcio (con conseguenti contromosse naturalmente da parte di quelli che sono intralciati).

Qui il problema vero sta nel rifiuto che esiste nei sistemi moderni delle giurisdizioni speciali. E’ ovvio che se per esempio i casi di corruzione che coinvolgono politici potessero essere affrontati da corti speciali che solo quel carico hanno, tutto potrebbe essere velocizzato e si potrebbero studiare forme per avere conclusioni in tempi molto ragionevoli delle inchieste. Il che, fra il resto, gioverebbe all’obiettivo di deterrenza che la legislazione penale deve rivestire: una pena, anche non eccessivamente pesante, che però arriva con certezza e in tempi rapidi fa molta più paura che non una pena che forse non arriverà e per la cui decisione occorrono tempi molto lunghi.

Il tema di fondo che però dovrebbe interessare tutti è che si riapra un confronto ragionevole sulla gestione del delicatissimo problema della giustizia. In fondo questa è la lezione che si dovrebbe ricavare dagli anni di Tangentopoli: quell’impostazione giustizialista non è servita a ridurre il tasso di corruzione del sistema italiano e non ha contribuito al miglioramento del nostro contesto politico. Se la magistratura vuole essere appieno, e non solo da un punto di vista a metà formale e a metà corporativo, uno dei poteri fondanti dello stato, deve contribuire con generosità e lungimiranza a quel fine di preservare e implementare la positività del sistema politico. Non certo rinunciando al suo compito di promuovere il rispetto della legalità, ma anche avendo di questo una visione un po’ meno settaria (tecnicamente: cioè non considerando il problema solo dal suo punto di vista di gruppo professionale).

La politica deve a sua volta cooperare non tanto rivendicando primati, quanto facendo capire che è anch’essa interessata al perseguimento dell’obiettivo fondamentale della legalità, pur se su questo terreno dovrebbe poter essere in grado mettere davvero in campo qualcosa di diverso dalla pura logica repressiva.

 

 

 

 

* Studioso di sistemi politici e culturali