Ultimo Aggiornamento:
07 dicembre 2024
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Silence, regia di Martin Scorsese (2016)

Sabina Pavone * - 04.03.2017
Scorzese - Silence

Il film Silence di Martin Scorsese sull’esperienza dei missionari gesuiti in Giappone al tempo della scristianizzazione del XVII secolo non è un’epopea. In questo senso si colloca su tutt’altro piano rispetto a Mission (1986),film nel quale Roland Joffé ricostruiva in maniera epica ed edulcorata l’ultimo scontro tra i gesuiti delle reducciones del Paraguay e le potenze coloniali.

Scorsese lavora su un piano diverso: pur essendo molto fedele alla trama del libro scritto nel 1966 da Shusaku Endo il film gioca su un rapporto strettissimo tra il silenzio del titolo, la parola e l’immagine, intrecciandoli in maniera tale da rimandare dall’uno all’altro piano con una logica stringente che si dipana man mano che scorrono le scene. Punti di riferimento sono i due dialoghi posti all’inizio e nel momento di svolta finale della pellicola. I protagonisti sono tutti gesuiti: nel primo Alessandro Valignano, noto visitatore della Compagnia per l’Asia e primo teorico dell’accomodamento gesuitico in Oriente, legge ai due giovani missionari protagonisti l’ultima lettera ricevuta da padre Ferreira, in cui il missionario riferisce tutto il suo sgomento di fronte al terribile martirio di missionari e giapponesi convertiti al cristianesimo al quale è stato costretto ad assistere. Dalle parole della lettera si intuisce chiaramente la disperazione che passa davanti a Ferreira (personaggio realmente esistito), il senso di impotenza che ci fornisce una chiave di lettura a quanto subito dopo Valignano riferisce ai due giovani: Ferreira è scomparso e testimoni affidabili riferiscono di una sua abiura e di un definitivo allontanamento dal cristianesimo. I giovani Rodrigues e Garupe (personalità profondamente diverse come emerge nel corso del film) non accettano tali voci e partendo da Macao, ultimo avamposto portoghese in Oriente, intraprendono un viaggio periglioso e ostinato verso -  e attraverso - il Giappone alla ricerca di Ferreira. Lo troveranno. E il dialogo posto come momento di svolta del film tra lo stesso Ferreira e il giovane Rodrigues è una piccola lezione sulla difficoltà, per non dire talvolta l’insensatezza, di far comunicare culture profondamente diverse come quella europeo-cristiana e quella giapponese. Il vecchio maestro cerca di spiegare al giovane adepto come il tentativo di convertire i nipponici abbia portato con sé solo persecuzioni e violenza ma Rodrigues resisterà ancora prima di convincersi anche lui ad abiurare la fede cattolica, come il più vecchio confratello. Ma è di vera apostasia che si tratta? Questa la domanda che corre lungo tutto il film: chi può dirsi davvero cristiano? Chi, anche a costo della vita, rifiuta di calpestare l’immagine di Dio o chi invece – come il converso Kijijiro -nonostante le numerose abiure non smette di chiedere al gesuita Rodrigues il perdono della confessione?Scorsese ricostruisce magistralmente il Giappone secentesco in cui la storia è ambientata ma propone un messaggio che va oltre il singolo contesto. La grandezza del film è di porre, senza facili soluzioni, il problema del significato dell’evangelizzazione laddove la conversione diventa certezza di persecuzione, significato che turba le coscienze non solo dei convertiti ma anche, e soprattutto dei missionari convertendi. È interessante, ma non può essere un caso che il persecutore giapponese sia definito inquisitore. Perché in fondo non capisce, così come l'Inquisizione romana nel Settecento non capirà l'approccio missionario della Compagnia di Gesù in Oriente, quale sia la vera essenza del cristianesimo per i gesuiti – quella disparità fra ortodossia e ortoprassi - che porta molti dei convertiti del film a un fraintendimento del messaggio cristiano e a confondere la fede con l’idolatria. Per questo nel film è centrale l’uso delle immagini: dalla tavoletta che i convertiti calpestano per dimostrare la propria abiura, raffigurante il Cristo della Pietà michelangiolesca (una neanche troppo velata allusione al nicodemismo dell’artista?), ai santini che gli stessi convertiti che s’incontrano clandestinamente per celebrare la Messa mostrano al gesuita nel corso di una di queste cerimonie notturne, santini che riproducono la più nota immagine della pietà giapponese cristiana, la Madonna delle Nevi, espressione del sincretismo fra arte rinascimentale e arte nipponica.

Il film si presta dunque a diverse ipotesi di lettura che si incrociano senza sovrapporsi del tutto: se infatti da una parte la giustificazione consapevole e dolorosa della propria abiura da parte dei gesuiti Ferreira e Rodrigues sembra rimandare all’impossibilità di dialogo fra le due culture cristiana e nipponica, dall’altra il continuo tornare sulla figura dell’apostata Kijijiro che calpesta l’immagine di Dio per correre poi nuovamente a confessarsi in nome della propria sincera fede cristiana sembra invece volerci dire dell’impossibilità della stessa abiura per un cristiano che ha ricevuto il dono della fede. Le confessioni reiterate del giapponese ci dicono di una fede che c'è, non della sua mancanza. Non sono gli atti esteriori che denotano il vero cristiano, ma è ciò che alberga nel suo cuore. Una posizione che, paradossalmente, può rimandare al mondo protestante e, di nuovo, al nicodemismo di quel cripto-luterano arrestato dall’Inquisizione romana come sospetto eretico per essersi rifiutato di genuflettersi di fronte alla croce, poiché – dichiarava- lui la croce «la teneva al core».  Non ci stupiamo, allora,quando, nell’ultima scena del film,dopo aver assistito al funerale di Rodrigues secondo le norme buddiste la macchina da presa si insinua all’interno del sacello che custodisce il corpo pronto a essere cremato e si sofferma su un piccolo oggetto che il vecchio gesuita stringe tra le sue mani: è una piccola croce.

 

 

 

 

Sabina Pavone insegna storia moderna all'università di Macerata. Si occupa di storia religiosa, con particolare riguardo alla storia delle missioni in Oriente e ai rapporti tra missionari e inquisizione romana.