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Si fa presto a dire Europa …

Michele Iscra * - 29.03.2017
Roma 60 anni d'Europa

E’ ingenuo lamentarsi del documento approvato a Roma dai 27 rappresentanti degli stati dell’Unione Europea, sia che lo si faccia per sottolinearne la natura di compromesso diplomatico sia che la ragione consista nel rinfacciargli la mancanza di coraggio prospettico. Da una riunione come quella tenutasi per commemorare i sessanta anni dai primi trattati istitutivi di quella che sarebbe lentamente diventata la UE e da un testo che era generato da una assemblea di capi di stato e di vertici brussellesi non ci si poteva aspettare di più.

Ovvio che non si potesse puntare a qualcosa di diverso da un testo su cui far convergere tutti, anche i più riottosi, perché non si sarebbe saputo come gestire la mancata firma di qualche stato membro soprattutto in una fase in cui cresce il numero di coloro che scommettono su una crisi prossima della costruzione europea. Dunque non è di questo esito che ci si deve dispiacere, perché lascia tutto più o meno come è. Che fosse assai poco “comunitario” e vincolante lo si è visto subito, per esempio col rifiuto dell’Austria di tenere fede agli impegni presi in materia di redistribuzione dei profughi.

La questione che dovrebbe preoccupare è la mancanza di qualsiasi colpo d’ala nella gestione di questa crisi. Cose anche banali, ma che avrebbero potuto avere un certo impatto simbolico come organizzare per esempio a Roma in contemporanea con le cerimonie “diplomatiche” un simposio di intellettuali europei che discutessero sul futuro dell’Unione non sono neppure state ipotizzate.

La debolezza della Commissione e delle istituzioni di Bruxelles è sempre più evidente proprio nella incapacità di avviare una controffensiva strategica contro i populismi che dominano nei vari stati membri. Si capisce bene che i singoli governi non ne vogliano sapere, perché interpretano ogni iniziativa di questo tipo con la vecchia ottica del “non svegliare il cane che dorme”. Peccato che il cane sia ormai ben sveglio da solo.

Se prescindiamo da qualche generico documento sottoscritto dalla solita miriade di firme di europeisti in servizio permanente effettivo, non sapremmo citare nessun serio intervento che abbia affrontato in maniera articolata la crisi presente. Nessuna istituzione di ricerca europea, ciascuna delle quali costa fra il resto cifre più che notevoli, è riuscita a produrre uno straccio di documento che sia riuscito a mettersi al centro di una vasta discussione. Uno dovrebbe chiedersi per esempio a cosa serva avere un Istituto Universitario Europeo a Fiesole a cui non risulta il mondo guardi come ad un faro di pensiero europeo, nonostante il suo peso sui bilanci comunitari.

Il fatto è che fino a non molto tempo fa la promozione dell’Europa era intesa come una retorica celebrazione di successi per lo più consistenti in uno sviluppo che sarebbe da discutere se attribuibile proprio al cento per cento alle istituzioni comunitarie. Per esempio ogni europeista di professione ripete il ritornello per cui sarebbe la UE ad avere garantito settant’anni senza guerre fra gli stati del nostro continente, ma è dubbio che queste sarebbero sicuramente scoppiate nel caso non ci fosse stata una forma di forte collaborazione tipo quella che si è realizzata a partire dai trattati di Roma. E’ più realistico affermare che un grosso contributo a questo lungo periodo di pace è arrivato da circostanze internazionali e da sviluppi economici che ci sarebbero comunque stati.

Ciò non significa naturalmente svilire l’importanza di quanto si è costruito col processo di parziale unificazione europea. Non c’è dubbio che in un mondo globalizzato poter essere presenti in termini competitivi sia anche una questione di dimensioni, per cui il mercato unico è indubbiamente un fattore importante. Anche una politica estera non diremo comune, ma almeno un po’ più coordinata sarebbe importante, ma quella purtroppo latita.

Bisogna però necessariamente a questo punto riprendere in mano il tema della fondazione politico-culturale dell’Europa come spazio comune. Proprio la precipitosa inclusione dei paesi dell’Europa Orientale che mancavano di queste esperienze culturali ha mostrato come si tratti di carenze che pesano. Sarebbe bene prendere atto che oggi in presenza di una crisi culturale generalizzata anche nell’Europa Occidentale la presa del richiamo ad una storia comune è evanescente: soprattutto perché quella storia comune non è più patrimonio di formazione neppure delle elite dirigenti, spesso acculturate al più su un po’ di strumentazione funzionalista in economia e in qualche scienza cosiddetta hard.

Il fatto è che le costruzioni politiche non vivono sul funzionalismo, con buona pace dei Monnet e della sfilza di burocrati che lo hanno seguito su questa strada sostenuti da ricche prebende. Vivono come frutto di culture in dialogo, di quelle famose “scienze dello spirito” oggi stupidamente disprezzate. Se non ci sono sforzi per costruire un contesto e un vivaio per favorire la produzione di questo tessuto identitario comune non si andrà da nessuna parte. Gli egoismi nazionali sono più forti, le paure delle invasioni prevalgono, il vecchio mantra del “ciascuno per sé e dio per tutti” tornerà a risuonare.

Speriamo che qualcuno si svegli prima che sia troppo tardi.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea