Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
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Quello che i programmi (non) dicono. I grillini e l’antimeritocrazia (il caso di università e ricerca)

Novello Monelli * - 03.03.2018
Università e ricerca

La cenerentola della campagna elettorale

In quella che è stata ribattezzata coralmente la più bruta campagna elettorale di sempre ci sono stati (almeno) due temi cenerentola, tendenzialmente ignorati nei confronti (virtuali) tra i leader: ricerca e difesa. La constatazione non dovrebbe sorprendere. Nessun ufficio comunicazione di un partito e nessun addetto stampa di un politico eletto consiglierebbe oggi di investire troppo tempo in argomenti ritenuti lontani dagli interessi di pancia dell’elettore medio. Mentre, per forza o per amore, la scuola è un oggetto caro a tutti i genitori-elettori (sebbene il più delle volte per interessi poco o punto legati alla crescita culturale dei propri figli), l’università e la ricerca sono percepite come realtà astruse, estranee ad una vita quotidiana fatta di tasse, buche nelle strade, parcheggi, immigrati e paure. Ancora di più, atenei e enti di ricerca sono normalmente destinatari di una congrua fetta di invidia sociale: in fin dei conti, professori e ricercatori non sono dei privilegiati, sostanzialmente parassitari del sistema, che non producono e non vendono nulla (per sintetizzare una formula simpatica che ogni addetto, almeno una volta, si è sentito rivolgere)? A questa sostanziale estraneità (o diffidenza) del messaggio elettorale rispetto al settore della ricerca e dello sviluppo concorre non poco la grottesca incompetenza che alligna nei mass media nazionali. In un paese dove i giornalisti mostrano ripetutamente di non conoscere (o, peggio ancora, di non tenere in alcuna considerazione) la differenza tra dottorando e ricercatore, come si può pretendere di ottenere un’informazione corretta sul mondo dell’università? Come il triste caso di Giulio Regeni (e di altri suoi colleghi) insegna, gli studiosi in questo paese fanno notizia solo se muoiono in circostanze tragiche, e neppure questo aiuta a promuovere una narrazione minimamente accurata sul mondo dell’alta formazione e della ricerca.

 

Le tentazioni pericolose

Eppure, gli esordi della campagna elettorale avevano registrato un interessante (e alquanto confuso per la verità) parapiglia mediatico, dopo che, a gennaio, nel corso dell’assemblea programmatica di Liberi&Uguali a Roma, Pietro Grasso aveva annunciato che il suo partito puntava all’abolizione delle tasse studentesche come misura per ritornare ad un’università veramente aperta a tutti, trampolino sociale e palestra di formazione per ogni giovane. Sulla sostenibilità della misura si può discutere. A detta dei proponenti, costerebbe 1,6 miliardi di euro: il Fondo Ordinario universitario 2017, vale a dire i soldi che il MIUR stanzia per garantire la vita agli atenei statali, è (al netto dei contributi degli studenti) pari a poco meno di 7 miliardi, ed è cosa nota urbi et orbi che si tratta già di un patrimonio assai striminzito. Ciò non ostante, è indubbio merito dell’ormai ex presidente del Senato di aver aperto quantomeno il dibattito in modo inconsueto, e su questioni stringenti. Peccato che, subito dopo, ricerca e università siano, come da tradizione, scomparse dal repertorio dei salotti televisivi e dei comizi, relegate nuovamente nelle pagine centrali dei programmi dei partiti che costituiscono un genere letterario a sé, perlopiù ignorato specialmente dagli elettori. Peccato. Perché, anche se le politiche universitarie occupano spazi molto differenti a seconda della famiglia politica che si esamina (non sorprendentemente, nella Lega di Salvini occupa mezza pagina scritta larga), la lettura dei programmi rivela molto delle velleità, delle lacune e delle tentazioni nascoste che percorrono soprattutto il messaggio delle formazioni più aggressive.

 

Che fare? Il desiderio di smantellare il sistema.

Il caso più emblematico è sicuramente quello del M5S, che al tema università&ricerca dedica una decina di pagine fitte di proposte (meno di dati e di cifre, ma questo è un problema comune anche ad altri partiti). Il punto di partenza del movimento fondato da Beppe Grillo è che «l’università italiana e il mondo della ricerca rappresentano un sistema integrato di assoluta importanza per il nostro Paese» che va riformato e rilanciato, per farlo uscire dalla disastrosa situazione causata dalle «scelte incomprensibili da parte dei Governi» che hanno progressivamente sottratto risorse. Il nodo centrale è dunque «assicurare a tutti gli atenei un finanziamento adeguato al loro funzionamento» (p. 2 del programma). Ed è in quel tutti che si può ritrovare una spia indicativa dello spirito che permea il programma grillino sull’università. In effetti, quello che segue non è tanto un crono-programma credibile su come garantire alla galassia delle università statali e degli enti di ricerca più risorse assicurate per alcuni punti ritenuti essenziali (il programma del PD, che pure non brilla sempre per puntualità, almeno avanza alcune cifre e progetti strategici di reclutamento) quanto un piano per smantellare l’architettura del sistema così come esso è stato costruito a partire dalla riforma del 2010.

 

Gli arrabbiati dell’università a cui Di Maio strizza l’occhio

La cosiddetta «legge Gelmini» rappresentò a suo tempo un terremoto, specialmente per gli atenei pubblici, e non è un segreto che essa sia stata osteggiata (con forza) dalla maggior parte dei ricercatori e dei professori. Maturata all’interno di uno schieramento politico pregiudizialmente ostile all’ambiente universitario, la «Gelmini» ha causato senza dubbio una montagna di problemi. D’altra parte, non si può non riconoscere che da allora l’università abbia (con molta fatica) anche accettato e fatta propria una cultura della valutazione e, con molte remore, del merito, che le erano state prima largamente estranee. L’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (ANVUR), la Valutazione qualitativa della ricerca (VQR), l’esistenza di un fondo premiale che aumenti le risorse a favore degli atenei più meritevoli, l’introduzione dei «dipartimenti di eccellenza», sono elementi che oggi inquadrano la vita universitaria, in larga parte estranei al sostrato ideologico antiaccademico che aveva caratterizzato la permanenza di Maria Stella Gelmini alla guida del MIUR.  Ed è sintomatico che siano proprio queste le bestie nere del M5S che, una volta giunto al potere, mira a reintrodurre la figura del ricercatore a tempo indeterminato, «revisionare l’Abilitazione Scientifica Nazionale» (introducendo la quantità di didattica come criterio per ottenerla), revisionare il sistema di ripartizione del Fondo Ordinario, e depotenziare (scilicet, smantellare)  ANVUR e VQR (p. 8). A quale criterio di ispira realmente questo programma? Chiunque bazzichi il mondo dell’università italiana sa che oggi la cultura della valutazione non genera solo simpatie. Molti appartenenti al vecchio ruolo ad esaurimento di ricercatore a tempo indeterminato (una figura bizzarra del nostro sistema, che si era tradotta talvolta in una sinecura) si lamentano delle scarse possibilità di carriera, a causa della concorrenza dei nuovi ricercatori a tempo determinato (costretti ad essere molto più qualificati per avere la speranza di essere reclutati). In molte piccole università (soprattutto nel Meridione, dove la proliferazione delle sedi locali nell’ultimo quarto di secolo ha raggiunto livelli impressionanti) ci si lamenta della diminuzione progressiva di risorse pubbliche, a causa dell’accresciuta importanza delle quote premiali e degli stanziamenti basati sulla qualità della ricerca (tallone d’Achille di molti piccoli atenei periferici). Né ci si può nascondere che, in taluni casi, ricercatori e professori incontrino difficoltà a garantire una adeguata produttività scientifica protratta nel tempo, e desidererebbero essere giudicati piuttosto sulla didattica, che richiede in minor misura di confrontarsi con il dibattito scientifico internazionale. Sono questi i tutti a cui il programma del M5S pare strizzare l’occhio: i dominati (per dirla con Pierre Bourdieu) e gli arrabbiati di un mondo universitario sempre più competitivo, e sempre meno spendibile come parcheggio sociale.

 

 

 

 

* Chercheur associé CNRS – Paris Sorbonne