Ultimo Aggiornamento:
14 dicembre 2024
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Per un governo del Primo Ministro: una riforma costituzionale mirata

Maurizio Griffo * - 24.01.2024
Costituzione

Da oltre quaranta anni si discute in Italia sulla necessità di una riforma costituzionale che renda più stabile ed efficace l’azione dell’esecutivo. Si tratta di una discussione che non ha portato ad alcun risultato. Nel frattempo, però, alcune modifiche costituzionali che sono state approvate hanno decisamente peggiorato la situazione. Mi riferisco alla sciagurata riforma del titolo V che, nel 2001, ha aumentato i poteri delle regioni, ha diminuito i controlli sul loro operato, ha introdotto la possibilità di ulteriori passaggi di competenze (il cosiddetto regionalismo differenziato) senza prevedere una clausola di supremazia nazionale. In sostanza, una modifica costituzionale che ha fortemente indebolito il sistema paese in una fase in cui, per meglio fronteggiare la globalizzazione, era necessario rafforzarlo. Non meno scriteriata è stata un’altra modifica costituzionale, approvata nel 2021, che ha imposto un taglio lineare dei parlamentari delle due camere. Una misura che non ha migliorato il rendimento delle istituzioni, ma è, invece, animata da una intenzione punitiva e vendicativa nei confronti della classe politica.

Rispetto a tale poco confortante panorama l’annuncio che il governo Meloni avrebbe promosso una riforma costituzionale volta ad accrescere i poteri del presidente del consiglio è parsa, a primo acchito, una buona notizia. Tuttavia, un esame del progetto di riforma ha presto dissipato questa speranza. Il progetto non aumenta i poteri del presidente del consiglio, non crea stabilità e, infine, altera l’equilibrio tra le istituzioni. L’elezione diretta, infatti, dà al presidente del consiglio una legittimazione più forte ma non ne accresce i poteri (attivazione della procedura scioglimento delle camere, revoca dei ministri) consentendogli di governare e dirigere la sua maggioranza parlamentare. Peraltro, riguardo alla legge elettorale, la previsione di un premio di maggioranza del 55%, da assegnare ai candidati e alle liste collegate al presidente del consiglio, data la forte frammentazione del sistema politico, rischia di risultare eccessiva e quindi sanzionabile dalla Corte costituzionale. Inoltre, la cosiddetta norma antiribaltone, che consente la sostituzione del presidente del consiglio eletto direttamente con un altro parlamentare della stessa coalizione, crea un forte incentivo al logoramento e alla destabilizzazione del presidente del consiglio eletto.  Infine, la elezione diretta del presidente del consiglio ridurrebbe l’autorevolezza e le prerogative di una figura di garanzia come il Presidente della Repubblica, che gode di una legittimazione diversa.

Pure, se il progetto governativo appare debole e incoerente, l’esigenza di aumentare la durata e l’efficienza dei governi resta un obiettivo condivisibile ed auspicabile. Per queste ragioni un gruppo costituzionalisti e di studiosi di sistemi politici (fra cui ricordiamo Angelo Panebianco, Giuseppe De Vergottini, Antonio Polito, Franco De Benedetti, Gaetano Quagliariello) ha messo a punto una proposta di governo del Primo ministro che conviene illustrare nei suoi snodi essenziali. Il progetto non prevede l’elezione diretta, bensì l’indicazione sulle schede elettorali del nome del candidato alla carica di Primo ministro. In questo modo, anche senza una elezione formale, gli elettori darebbero comunque una indicazione precisa sull’indirizzo politico che preferiscono. Sulla legge elettorale il progetto si limita ad indicare che essa dovrebbe essere di tipo maggioritario senza prevedere un premio di maggioranza, una scelta quest’ultima che, come l’esperienza insegna, ha dato in passato un potere di coalizione eccessivo a piccole formazioni politiche, alimentando la litigiosità all’interno della maggioranza. Soprattutto, poi, la proposta prevede un ragionato e ragionevole aumento dei poteri del Primo ministro, che si articola in tre punti essenziali. Il Primo ministro deve avere la fiducia delle due camere in seduta comune; può proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e può, in certi casi, attivare il potere di scioglimento delle camere. In tale quadro normativo, anche la modifica terminologica che denomina il capo del governo Primo ministro, e non più presidente del consiglio, non è un espediente semantico ma rimanda a un effettivo rafforzamento dei poteri di dissuasione e di indirizzo politico affidati al responsabile del governo.

Lo spirito con cui è stato messo a punto questo progetto è uno spirito bipartisan, anche perché le modifiche proposte sono riprese da progetti presentati in precedenti legislature da parlamentari appartenenti tanto al centro destra che al centro sinistra. Si tratta di una riforma mirata che non stravolge la Costituzione ma si concentra su di un unico punto nevralgico, quello della forma di governo. C’è da sperare che possa essere approvata, per sanare finalmente l’anomalia tutta italiana della instabilità governativa.

 

 

 

 

* Ordinario di storia delle dottrine politiche - Università di Napoli