Occorre un immaginario correttivo (Non strumentalizzare la conta dei morti)
Sono più di ottantamila le vittime per Covid dall’inizio della pandemia (83681 al 21 gennaio 2021): rapportata al numero di casi e abitanti, questa cifra racconta un Paese ai primissimi posti nel mondo per diffusione della malattia e decessi. Dal confronto con la media dei deceduti degli ultimi cinque anni, sappiamo anche che il Covid si è portato via migliaia di vite in più. Quante? Difficile stabilirlo con certezza.
Le stime possono essere per difetto, se riuscissimo a conteggiare anche le vittime “indirette” del Covid: decessi conseguenti al sovraccarico di pronto soccorso e di ospedali che ha imposto rinvii e cancellazioni di interventi chirurgici, ritardi di diagnostica e prevenzione. Proprio il sovraccarico delle strutture sanitarie è la grande emergenza, che peserà anche sul futuro, più ancora del conteggio dei morti avulso dal contesto. Le stime, peraltro, potrebbero essere per eccesso, se il dato assoluto sulle vittime di Covid fosse rivisto alla luce di diagnosi, concause, accuratezza dei certificati di morte che dovrebbero indicare anche le patologie sofferte dal paziente. La contabilità, rispetto agli anni precedenti, dovrebbe tenere anche conto del numero minore di morti per altre cause (ad esempio, per incidenti stradali e sul lavoro) in relazione ai mesi di lockdown e a ridotte attività economiche e mobilità sociale.
Ha senso dire, come è stato detto, che il numero dei morti in Italia supererà le vittime della seconda guerra mondiale? Basta un rapido confronto : nel 1944, le vittime (compresi i caduti al fronte) furono 679.837, nel 2019 i decessi (per tutte le cause) sono stati 634.417, nel 2020 (anno della pandemia) la stima è oltre 680.000 a fine novembre, ma la popolazione italiana nel frattempo è cresciuta di quindici milioni. Confronti di questo genere risultano solo allarmistici e ingenerano confusione fra tasso di mortalità e letalità del virus.
Sono considerazioni che non vogliono essere riduttive, ma contribuire a una valutazione meno emotiva della pandemia, anche per limitare conseguenze indirette sul piano sociale e psicologico: il senso di smarrimento, l’angoscia per il futuro, l’impressione di non vedere la fine del tunnel. Uno studio dell’Insee, l’istituto di statistica francese, suggerisce qualche riflessione su un Paese colpito in modo abbastanza comparabile al nostro. Nell’anno del Covid, rispetto alla media del biennio 2018/19, il numero dei decessi è stato del 9 per cento in più : 53900, comprendendo tutte le diverse cause di morte. Fra gli ultrasessantacinquenni, la mortalità è aumentata del 10 per cento, mentre fra i giovani con meno di 25 anni è diminuita del 6 per cento.
Secondo l’Istat, l’Istituto di statistica italiano, il 66 per cento dei deceduti per Covid presentavano tre o più patologie, e il 18 per cento due patologie. Se si osserva la percentuale di vittime per classi di età, l’età media dei deceduti positivi al Covid è di 80 anni, mentre i deceduti con età inferiore ai 50 anni sono stati 737, l’1,2 per cento del totale (dato di dicembre 2020) e 190 quelli con meno di 40 anni, (130 dei quali con gravi patologie).
I dati andrebbero anche relazionati ad altre problematiche di più complicata valutazione. Occorre chiedersi - anche in confronto con la contabilità di altri Paesi - quanto abbiano inciso sulla situazione italiana l’anzianità della popolazione, le carenze del sistema sanitaria, la distribuzione territoriale, gli stili di vita, la concentrazione di attività economiche, l’inquinamento. Un’indagine ad hoc meriterebbe la Lombardia, la regione più ricca e progredita del Paese, con circa il 30 per cento dei decessi.
Varrebbe la pena di riflettere su interpretazioni che continuano a circolare, per lo più nel mondo politico, finalizzate a sminuire o appesantire un dato per pura convenienza.
Il recente dibattito alla Camera e al Senato ha dato la misura di questa schizofrenia (o disonestà) intellettuale. Secondo esponenti dell’opposizione, il governo Conte sarebbe responsabile del “record mondiale” di mortalità, salvo poi protestare (con la pretesa di difendere le categorie più penalizzate) contro le misure restrittive e la “colorazione” delle Regioni. Secondo diversi esponenti della (ex) maggioranza, si è fatto tutto il possibile (anche prima di altri governi) per contenere il contagio. Ma non si fanno ammende su errori, ritardi, confusione e conflitti fra poteri e Regioni.
Per inciso, maggioranza e opposizione dovrebbero farsi qualche domanda sulle responsabilità di un modello socio-economico di un Paese sempre più invecchiato che ogni anno “perde”, non per Covid, decine di migliaia di cittadini, per lo più giovani e laureati che vanno all’estero. In termini macroeconomici, è un’altra tragedia italiana, medicabile soltanto con un approccio rapido e condiviso ai progetti per il futuro.
Lo scontro politico trasmette nell’opinione pubblica una scorretta divaricazione fra le ragioni dell’economia e l’imperativo di tutelare la salute, fra l’urgenza di riconquistare la normalità (soprattutto le attività scolastiche e culturali) e il rischio di riprecipitare nel baratro. Di conseguenza, la strategia dell’elastico non piace a nessuno e alimenta la strumentalità sulle statistiche, ma è del tutto evidente che tutti i governi, compresi la virtuosa Germania, non ne hanno inventata una più efficace. Persino la Cina, dopo i trionfalismi sulla sconfitta del virus, è tornata a imporre misure di contenimento.
L’immaginario collettivo continua ad essere bombardato di emotività a buon mercato. E’ quindi urgente un immaginario “correttivo”: una percezione più realistica del dramma che ci aiuti a guardare con fiducia al domani.
* Editorialista de “Il Corriere della Sera” e scrittore, mnava@corriere.it