Le psicopatologie quotidiane che ci salvano la vita e (a volte) rovinano quella di chi ci sta accanto
Breve recensione del libro “Una lotta impari” di Simona Nuvolari – Rizzoli Editore
Debbo la lettura di questo libro al Premio Nobel Prof. Giorgio Parisi che me lo ha consigliato: un biglietto da visita che inserisco in esordio in questa breve recensione e che lo qualifica a priori.
L’autrice è al suo primo romanzo: si tratta di un’opera corposa e densa, incalzante nella narrazione che regge una trama complessa e gravida di impliciti, suscettibile di ampie interpretazioni.
La protagonista del racconto è Marta, una donna morbosamente legata all’idea e alla pratica di una pulizia ossessiva, che la rende guardinga e compulsivamente impegnata in una lotta impari con il mondo che le sta attorno: senza tregua, senza sosta, senza eccezioni, tutto ciò che può essere fonte di un contatto, di un utilizzo pregresso da parte di altre persone diventa un cruccio insopportabile e allo stesso tempo un motivo di impegno ad evitarlo o a rimuovere, riparare, cancellare le tracce del pur minimo sfioramento. Oltre a ciò di cui si rende conto, vede e diventa motivo di sofferenza c’è ampio spazio per immaginare ciò che può essere accaduto a sua insaputa, prima: una maniglia aperta da una mano non pulita, il pulsante dell’ascensore premuto da chissà chi, le banconote che circolano, ma anche i semplici fogli di carta, i documenti ritirati in banca o allo sportello di un ufficio, i prodotti sugli scaffali del supermercato, il carrello da spingere: tutto, ma proprio tutto può essere fonte di contaminazione, nessuno virus o batterio deve varcare la soglia di casa, ogni cosa va passata, disinfettata e pulita. I sacchetti della spesa, anche se pesanti, da portare fino a casa senza posarli sui marciapiedi, i lavavetri ai semafori da evitare, le vicissitudini quotidiane con gli insetti che portano contaminazione da fuori, il campanello di casa da pulire se usato da estranei.
Quanto alle proprie mani, che sono l’avamposto e le antenne, lo scudo che inevitabilmente – difendendola – la riparano da contatti più estesi, esse vanno lavate con un rituale che si alterna con ogni azione che la costringa ad un contatto con le cose: toccare, pulire, lavare, anche fino a cinquanta forse cento volte al giorno. Strano che la donna delle pulizie sia accettata in questo tabernacolo di igiene totale: certo va seguita anche lei, guatata e rincorsa, per non parlare del marito e dei figli che adora ma che devono recitare il rigido copione della sequenza di igienizzazione totale dopo ogni contatto con oggetti, vestiti, stoviglie. Conosco persone che impongono veti e obblighi inaccettabili: compulsivamente più patologici di Marta. Il lavaggio delle mani deve essere l’occupazione principale in casa, se si sfiora il divano o l’armadio con i pantaloni entrambi subiscono un trattamento predeterminato: in lavatrice i vestiti e passata con un prodotto igienizzante la mobilia. Ciò che sta in cucina non può essere portato in altri vani, se cade a terra una pastiglia di medicinale si lava il pavimento, se una briciola cade sul pigiama lo si mette in lavatrice, dopo aver lavato con acqua e sapone le parti del corpo sottostanti anche se estranee al contatto. Cellulari, chiavi, oggetti tenuti in tasca, monete, portafogli vanno rigorosamente passati con un panno umidificato prima di essere messi a posto, gli abiti spogliati facendoli scivolare lentamente per non sollevare polvere, ogni gesto che metta in contatto con qualunque oggetto casalingo deve essere preceduto e seguito dal lavaggio delle mani, avendo cura di aprire e chiudere il rubinetto con il polso o il gomito. Altrimenti si sporca il rubinetto ed è un continuo dispendio di acqua, sapone, asciugamani e detersivi per la lavatrice.
Marta si limita a controllare e disinfettare il passaggio delle persone e di ciò che entra in casa perché il vero pericolo consiste in quello con cui si viene in contatto fuori dalle mura domestiche.
Il racconto incede con una sequenza incalzante di dettagli ma non si tratta di una narrazione sui generis o lontana dalle realtà nascoste agli sguardi estranei alla vita domestica, la ‘normalità’ di chi giudica con alterigia è un alibi che copre manie e devianze magari ben più gravi: si tratta, osservandoli con lo sguardo di un’apparente ortodossia di comportamenti che uno specialista (ma capita di parlarne anche in cause di separazioni o di affidamento dei figli) definirebbe psicopatologie, atteggiamenti psicotici, sindromi ossessivo-compulsive e si tratterebbe di una diagnosi corretta, di vessazioni che giustificano la rescissione di legami affettivi. Comportamenti decisamente condizionanti la propria e l’altrui vita: capita di chiedere a queste persone il perché di certe fissazioni e le risposte in genere sono disarmanti ma non indulgenti verso pentimenti postumi: “sono fatto così, prendere o lasciare”.
Si tratta di stili di vita autogiustificati ed autoreferenziali, una corazza tra sé e il mondo, che nascondono spiegazioni complesse, origini recondite e remote, spesso bisogna risalire all’infanzia per scoprire carenze affettive o eventi dolorosi. Credo onestamente che basterebbe aprire alcune porte di casa per scoprire coabitazioni, convivenze, legami ad alto tasso conflittuale. Come mi disse Galimberti “appartamento” deriva da appartarsi: che si traduce in solitudini e incomprensioni, difficili equilibri di caratteri e visioni persino inconciliabili: resistere diventa un’impresa difficile con schizofrenie faticosamente contenibili. Mi ha fatto notare Parisi che questo romanzo non descrive solo psicopatologie: paradossalmente sono certe azioni morbose, ossessive, reiterate, compulsive che chi salvano da pericoli maggiori in quella nicchia di vita quotidiana dove cerchiamo protezioni e rassicurazioni emotive. Non nel caso di Marta- forse – ma in genere accade che si creino situazioni ad alto tasso di difficoltà di sopportazione reciproca: si salva un certo personale equilibrio interiore attraverso sequenze di azioni tese a proteggere la propria integrità, la difficoltà principale consiste nel conciliare questi comportamenti imperativi con le libertà e le abitudini altrui. Ho avuto modo di conoscere storie di rassegnata soccombenza allo strapotere ossessivo-compulsivo per conservare un’accettabile sostenibilità, creandosi vite parallele e nascoste o cedendo a poco a poco nella immedesimazione di soggetti deprivati delle minime libertà dei piccoli gesti, veri e propri zombie defedati e assenti. Ma in questo bel libro di Simona Nuvolari il disagio della protagonista lascia trasparire sentimenti e consapevolezze più nobili: l’apparente distacco dal mondo è una forma di difesa dai pericoli di un sodalizio umano spesso foriero di cattiverie e insidie negative.
Marta, impegnata a scandagliare nei meandri più reconditi della propria vita scopre che aprirsi alla confidenza di persone comprensive può offrire consolazioni e risposte.
La stessa pandemia da cui stiamo faticosamente uscendo ci ha fatto vivere un lungo e logorante periodo di isolamento rispetto alle relazioni personali: un coté altrettanto doloroso e disorientante quanto i pericoli del contagio fisico.
Il libro è un romanzo distopico sulle psicopatologie della vita quotidiana del nostro tempo, immersi come siamo in un ‘melting pot’ di distonie comportamentali: certe descrizioni ci aiutano a comprendere e spiegare le molte facce di una solitudine esistenziale che si esprime anche attraverso le incertezze e le precarietà dei vissuti.
Ma leggerlo fino in fondo ci fa dono di speranze impensate di cui dobbiamo essere grati a chi l’ha scritto.
di Francesco Provinciali *