L’Afghanistan e il mondo occidentale. La lotta al terrore di Bush e la sua eredità
L’annuncio ufficiale del presidente degli Stati Uniti Joe Biden riguardante il ritiro delle truppe dal territorio afgano ha scatenato una serie di reazioni sconvolte e piccate in tutto il mondo. Il discorso di Biden ha sancito la definitiva ufficializzazione del ritorno al potere e alla gestione del derelitto paese nelle mani dei resuscitati talebani, ai quali il presidente Bush aveva dichiarato la guerra spietata al terrore, post 11 settembre 2001. Trattative per la fuoriuscita degli americani dal pantano afgano erano state già avviate dall’ex presidente Trump, come chiaro segnale della volontà USA di lasciare la patata bollente Afghanistan.
Lo scalpore maggiore è stato suscitato dal ritorno al potere dei talebani, i principali fiancheggiatori di Al Qaeda e del responsabile dell’attacco alle Torri Gemelle: Osama Bin Laden. Venti anni dopo, l’Afghanistan sembra essere ritornato ad essere una roccaforte della reazione islamica antioccidentale. Le violenti polemiche piovute sugli USA, le strazianti scene delle donne afgane e dei profughi che cercano di sfuggire alla inevitabile mannaia dell’ortodossia fanatica talebana, hanno dominato ogni social network, ogni testata giornalistica e ogni telegiornale. Sono scenari tragici, premonizioni di un futuro di regime violento sul popolo afgano, soprattutto su chi ha cercato di sfuggire il giogo dei talebani all’ombra dell’esercito statunitense.
Ma cosa effettivamente ha scatenato l’improvvisa ondata di paura nell’occidente?
Sul piano geopolitico la tesi più ricorrente tra gli esperti sostiene che Biden e il suo establishment, seguendo la strategia trumpiana, vogliano lasciare a Russia e Cina, confinanti con l’Afghanistan, la difficile e instabile situazione della zona. Una scelta precisa e consapevole, un deliberato intento strategico di lasciare un paese nel caos per occupare le potenze rivali nella gestione di un pericoloso vicino geografico. Sul piano interno è possibile sostenere con sicurezza che l’opinione pubblica non abbia mai voluto una occupazione ventennale dell’Afghanistan.
La stabilità del neonato regime talebano ha in questa nuova fase una fondamentale novità: gli enormi introiti del monopolio della produzione di oppio. Il commercio dell’oppio, e di conseguenza la produzione di droghe pesanti è ora la base della loro potenza economica e stabilità politica. In questo senso i talebani si sono davvero occidentalizzati, capendo che solo attraverso il controllo di un bene il cui mercato è particolarmente redditizio si rende inattaccabile il proprio potere geopolitico. Il consumo di droghe mondiale è sempre più in crescita, e il monopolio della produzione di queste ultime rende difficile ipotizzare una prossima caduta del resuscitato regime talebano.
Questo dato dovrebbe comportare una forte preoccupazione, non solo nell’occidente. L’eroina, ad esempio, è in costante aumento non soltanto nel mercato occidentale, luogo tradizionale di utilizzo di tale droga, ma anche nel medio oriente: gli stessi miliziani dei talebani abusano di sostanze stupefacenti, mentre in Iran suscita sempre più preoccupazione il consumo di droghe pesanti, in crescita con la povertà causata dalla pandemia di Covid-19. Eppure poca attenzione viene data a questo aspetto del potere talebano. Detenere il monopolio dello smercio di eroina è una forma di legittimazione difficile da sottrarre sul lungo termine, come dimostrano i famosi piani di lotta ai narcos colombiani o ai cartelli messicani.
Il vero e unico trend topic che ricorre nel mondo occidentale sembra essere quello su cui si era basata la strategia della lotta al terrore inaugurata dall’ex presidente George W. Bush a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001: la paura che l’occidentalizzazione dell’Islam abbia subito una forte battuta di arresto. Bisogna riconoscere che nei 20 anni di controllo militare statunitense dei passi verso una maggiore libertà, soprattutto nei diritti per le donne, sono stati fatti. Il regime talebano aveva indubbiamente raggiunto vette di repressione inumane, e sembra corretto immaginare che per le donne si ritornerà a un regime di totale sottomissione a dogmi legati al radicalismo islamico.
La fine dell’occupazione militare americana profila, a livello di percezione culturale e politica, un ritorno di un nemico dell’occidente. Tuttavia si sta dimenticando che i talebani sono stati riammessi al potere dal paese che a loro aveva dichiarato guerra spietata, e che nel medio oriente vi sono già delle entità che sono in conflitto con le potenze occidentali: ci si riferisce a Daesh, ossia lo Stato Islamico che nonostante una logorante guerra che ancora infiamma la Siria, non è stato sconfitto, anzi, o ad Al Qaeda. Di conseguenza la perdita dell’Afghanistan non è uno strappo così inaspettato. Può considerarsi semmai il colpo finale a una scelta ideologica, una crociata contro il mondo estremista islamico del presidente Bush all’alba dell’occupazione USA dell’Afghanistan, che non ha mai apportato alcunché a livello di risultati pratici. In sintesi, si è focalizzato lo sdegno mediatico per l’orrendo destino della popolazione afgana, dimenticandosi tuttavia che tale condizione accomuna buona parte del mondo arabo. Perché dunque un’ondata di sconcerto, scandalo e terrore ha sconvolto l’opinione pubblica occidentale?
La risposta sta nell’analizzare il vero successo della strategia della lotta al terrore di Bush: essa ha creato una perenne sensazione di essere sotto attacco “islamico” nell’occidente. Tale approccio non sembra esser cambiato con la fine materiale di queste politiche. La battaglia culturale tra due blocchi permane nell’immaginario occidentale: il mondo islamico necessita di un controllo occidentale, altrimenti le sue derive sono dannose. Ancora una volta, ci si dimentica che i movimenti estremisti islamici sono stati fomentati dalle potenze occidentali. Perché dunque versare lacrime mediatiche per l’Afghanistan quando è ormai una intera regione ad essere interessata dallo stesso fenomeno politico dei talebani?
Le ferite degli attacchi terroristici in Europa non fanno altro che alimentare la sensazione che il nemico dell’Occidente siano gli islamici, qualsiasi popolazione, stato o etnia essi siano. Soltanto la pandemia scaturita da Wuhan ha cominciato a coinvolgere l’opinione pubblica occidentale verso la definizione di un nuovo nemico, in espansione e in conflitto per ora solo economico e culturale, con l’Occidente: la Cina.
Lo stesso appiattimento e la stessa radicalizzazione in una posizione antioccidentale si verifica ormai nella maggior parte del mondo arabo e medio orientale, che persevera verso una ricerca di valori radicali islamici, antioccidentali. Non bisogna poi dimenticare che l’ultimo tentativo di una protesta laica, quella delle primavere arabe del 2011, è stata repressa dalle stesse forze considerate ora dei potenziali nemici della democrazia occidentale. Occidente, però, che non è mai veramente intervenuto in maniera concreta per tali movimenti. Come è dunque possibile indignarsi per la veloce caduta dell’Afghanistan nelle grinfie dell’ortodossia repressiva talebana, quando poco o nulla si fece per fermare le violenze contro le primavere arabe?
Forse, questo è stato il vero successo della lotta al terrore di Bush. Fare la guerra ai terroristi ha creato essa stessa una enorme massa di terrorismi. Nella mentalità collettiva la lotta al terrore, pur se non più coniugata con l’interventismo militare USA, permane e prospera.
* Dottorando in storia – Università di Genova
di Francesco Provinciali *
di Alessandro Micocci *