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27 aprile 2024
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Kosovo: “molto” di nuovo sotto il sole (tardo estivo)

Miriam Rossi * - 22.09.2015
Isa Mustafa e Aleksandar Vučić

È almeno dalla dichiarazione del 17 febbraio 2008 con cui il Kosovo si autoproclamò indipendente dalla Serbia, che lo scenario politico kosovaro non era così attivo, quasi a voler smentire l’avarizia di azioni politiche rilevanti che il mese di agosto generalmente riserva. Da quella data, le relazioni fra il governo di Belgrado e quello di Pristina, definite eufemisticamente “tese”, rimasero congelate e conferirono al Kosovo uno status ambiguo di Stato non totalmente indipendente. Le truppe militari internazionali della KFOR (Kosovo Force) restarono, seppur in numero limitato, per garantire la sicurezza del territorio anche a più di 15 anni dalla fine della guerra. Gli uomini della missione Eulex, sancita dall’Unione Europea proprio alla proclamazione dell’indipendenza del più giovane Stato del continente, giunsero allora sul territorio per coadiuvare le autorità kosovare nella costruzione dello stato di diritto del Paese. Centinaia di organizzazioni, governative e non, operano attivamente sul territorio sin dalla fine della guerra per sostenere e farsi carico di progetti di cooperazione internazionale che spaziano dall’istruzione/formazione, alla realizzazione di infrastrutture, alla salute pubblica, e all’inclusione sociale. E mentre i soldati vegliano sulla sicurezza, i tecnici di Bruxelles dispensano consigli su procedure amministrative e giuridiche, e gli operatori umanitari intessono relazioni e tentano di alleviare le difficoltà di una comunità frammentata, povera e senza chiari orizzonti, per anni i politici kosovari e i colleghi serbi sono stati a guardare, mantenendo delle posizioni rigide e poco inclini a un compromesso che mirasse a dare una soluzione alla vicenda. Almeno fino a questa estate.

Il 25 agosto scorso la stretta di mano a Bruxelles tra il premier kosovaro Isa Mustafa e il premier serbo Aleksandar Vučić ha siglato la stipula dei cosiddetti accordi Pristina-Belgrado, che prevedono un pacchetto di azioni condivise orientate a dare soluzione ad alcuni problemi ereditati dalla guerra e insoluti a causa dell’assenza di un canale diplomatico tra il Paese secessionista e l’ex “madrepatria”. Già nell’aprile 2013 la città simbolo dell’Unione Europea era stata teatro di uno storico accordo tra l’allora premier serbo Ivica Dačić e l’omologo kosovaro Hashim Thaçi, che si auspicava potesse segnare una normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia, soprattutto facendone per quest’ultima una condizione preliminare per l’ingresso nel processo di integrazione europea. Purtroppo per più di due anni l’Accordo di Bruxelles è rimasto lettera morta, fino a questa nuova stretta di mano e alle ben più concrete azioni pattuite. In sostanza, il riconoscimento serbo dello Stato kosovaro viene fatto transitare per l’assenso di Belgrado a un’autonomia di Pristina per l’adozione di un prefisso telefonico internazionale e per la gestione dell’energia; in cambio, il governo serbo ottiene un concreto gesto di distensione: la creazione dell’Unione dei comuni serbi presenti in Kosovo che godrà di un’autonomia riconosciuta giuridicamente dal nuovo Stato stesso. Proprio il simbolo della separazione tra kosovari e serbi viene a crollare con la rimozione dei blocchi di controllo e di riconoscimento che dividono le due comunità della città di Mitrovica, nel nord del Kosovo. Non è ancora il “crollo del muro di Berlino” ma simbolicamente si tratta di un passo effettivo nella direzione di una normalizzazione delle relazioni in base a concessioni che apparivano una chimera solo pochi mesi fa.

Nella consapevolezza che proprio le relazioni con il vicino serbo restano il nervo scoperto della politica kosovara e un elemento di costante instabilità della fragile politica ed economia del Paese, il 3 agosto scorso il Parlamento di Pristina ha dato l’assenso alla creazione di un Tribunale speciale che processerà alcuni ex-membri dell'Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK) per presunti crimini di guerra. Una richiesta venuta dall’UE l’anno passato a seguito della presentazione di un controverso rapporto stilato da Dick Marty, rapporteur al Consiglio d’Europa, che aveva sollevato accuse ad alti ufficiali dell’UÇK per omicidio e traffico d’organi di prigionieri. La possibile messa in dubbio della legittimità della guerra di liberazione nazionale contro la Serbia oltre al ruolo determinante ricoperto nella società kosovara dagli ex miliziani dell’UÇK, gli eroi della patria, avevano sinora sempre indotto Pristina a declinare con sdegno la richiesta dell’UE.

Cosa sia oggi cambiato è difficile dirlo. Probabilmente la necessità perentoria di imprimere una svolta politica decisa dinanzi alla diaspora del popolo kosovaro, con ben 800mila persone che risiedono e lavorano stabilmente all’estero a fronte di appena 1 milione e 800mila cittadini nel territorio nazionale. O anche la volontà di ottenere un più ampio supporto dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri, anche da quei 5 (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna) che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo, per una normalizzazione delle relazioni sul continente, incluso per ottenere quella libertà di movimento dei propri cittadini nell’UE che i kosovari sono gli unici a non detenere tra gli “ex jugoslavi”.

 

 

 

 

* Redattrice di Unimondo e Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali