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Il ritorno al centro, un’illusione fuorviante

Ugo Rossi * - 24.03.2015
Trentino Alto Adige Südtirol

Dobbiamo essere realisti: il ritorno al “centro” è nelle corde del dibattito politico, nei passi conclusivi della riforma della Costituzione, nelle scelte di un Governo sempre più invasivo nei confronti delle autonomie locali. Una giusta autocritica dei mali del regionalismo e del localismo è doverosa, ma questo non vuol dire che la soluzione sia automaticamente addensare i poteri in capo allo Stato. Quindi è necessario chiedersi se la strada imboccata sia quella giusta, oppure se rappresenti l’ennesimo tentativo di superare i problemi del Paese ignorandoli, se non addirittura aggravandoli.

L’Italia non è tutta uguale e non si può usare un metro unico per situazioni profondamente diverse, pensando che ciò non renda dirompente una governance di sistema già difficile e contradditoria. Questo significa non cedere alle tentazioni semplificatorie che inducono a restringere il campo e a scegliere la via più comoda, immaginando di poter bypassare la complessità e l’inafferrabilità del Paese reale attraverso la verticalizzazione dei poteri statuali.

Negli ultimi quarant’anni abbiamo assistito ad un andamento pendolare che ha visto prima prevalere un’idea di Nazione compatta, dove Roma decideva e provvedeva, o almeno si illudeva di farlo, a tutto. Poi l’ubriacatura federalista che aveva posto tutto in capo alle Regioni, pensando che solo dal basso fosse possibile risanare Istituzioni e bilanci pubblici. Oggi, sotto il pressing congiunto del debito pubblico e del mal’esempio di molte Amministrazioni regionali, è riemersa potente la convinzione che solo il ritorno al “centro” possa risolvere le gravi e pressanti questioni con cui dobbiamo saperci misurare. Qui sta il problema. È illusorio e forviante ritenere che il riflusso verticistico sia in grado di far ripartire l’Italia. Una geografia così protesa e articolata, una storia così ricca di soggettualità e culture, un assetto territoriale così vario nelle vocazioni e nei modelli di sviluppo. Fattori oggettivi, questi, che non possono essere “parificati” e spalmati omogeneamente da Lampedusa alla Vetta d’Italia. Le diversità regionali sono la forza del Paese e il Paese deve saper valorizzare questa forza, non ignorarla o immaginare che sia un optional.

Dobbiamo avere il coraggio, e il realismo, di prendere atto che il potere centrale non è strutturalmente in grado di chiamare le autonomie territoriali alla necessaria corresponsabilità nel governo del Paese, se con queste si sviluppa un’inconcludente dialettica, fatta di imposizioni, commissariamenti, interferenze, tagli lineari, accorpamenti innaturali o amputazioni forzose. Se questa è la strada su cui si intende procedere ci candidiamo ad un nuovo e pesante fallimento. È urgente una drastica inversione di rotta. Una inversione che ha bisogno del regionalismo, anche se diverso da quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Una inversione che va capita e liberata dai luoghi comuni che oggi affliggono il dibattito politico e mediatico.

Innanzitutto, tolte le Regioni a Statuto speciale, dobbiamo prendere atto che l’esperienza delle Regioni ordinarie si è di fatto limitata a una mera delega di spesa su un numero di materie assolutamente contenuto: la sanità, i trasporti e poco più. Quindi ritenere che lo Stato non sia pienamente corresponsabile, anzi primo attore, del fallimento delle politiche regionali è del tutto infondato, visto che il grosso delle competenze è rimasto saldamente nelle sue mani.

In secondo luogo, senza responsabilità reali, è difficile che crescano una classe dirigente e una realtà istituzionale adeguate a governare territori di dimensioni contenute, ma non per questo meno difficili e complessi da gestire. Inoltre, senza una responsabilità reale non può crescere ed esprimere il suo potenziale quel capitale sociale, fatto di inventiva, competenza, solidarietà e impegno, che fa la differenza nella capacità di sviluppo dei diversi territori, al Nord come al Sud.

Se accettiamo questi presupposti, sul regionalismo dobbiamo investire e non disinvestire, come se non fosse la parte più ricca e vitale del Paese. Un regionalismo nuovo, fondato su rigorosi principî di responsabilità e di capacità di governo. Un regionalismo che punti all’autonomia e non solo al decentramento della capacità di spesa; che tenga conto delle specificità istituzionali e territoriali, dei risultati ottenuti, in termini di buon governo e di ricchezza prodotta, di attitudine a combinare, e non a contrapporre, interessi particolari e interessi generali.

E’ di conforto che non tutte le esperienze regionali siano state negative. Anzi, in qualche caso, pensiamo al Trentino Alto Adige Südtirol, si può ben dire che l’Autonomia abbia portato risultati importanti sia in termini di responsabilità locali che di capacità di governo e di supporto ai processi di sviluppo. Quindi dobbiamo saper valorizzare tutte le risorse di cui disponiamo, umane, territoriali e istituzionali, evitando di finire impantanati tra un centro incapace di essere attore e fautore di uno sviluppo diffuso e una periferia priva di reali capacità di autogoverno, e di conseguenza indisponibile ad assumersi le proprie responsabilità. Un rischio che le recenti forzature governative e parlamentari stanno rendendo più acuto e insidioso.

L’obiettivo è di conseguenza ridefinire in modo appropriato l’intera filiera della governance per espletare, ad ogni livello istituzionale, le più appropriate competenze e funzioni, in un confronto sistematico capace di ripensare e armonizzare con realismo gli obiettivi internazionali, nazionali, regionali, i vincoli da rispettare e le risorse disponibili. Una governance fondata su un nuovo patto tra le Regioni, rilanciate in termini di ruolo, responsabilità e capacità di autogoverno, e lo Stato, impegnato a portare a sintesi la ricchezza plurale del Paese, tenendo sempre conto che gli interessi nazionali non possono essere disgiunti da quelli locali.

 

 

 

 

* Presidente Provincia Autonoma di trento