Il mistero della preghiera, la forza dell'umiltà
Quando chiesi al Cardinale Carlo Maria Martini in che misura la via del silenzio, della meditazione e della preghiera può essere fonte di rivelazione e di incontro con Dio, mi rispose con parole che debbo trascrivere, tanto sono ricche di pathos, accessibili a tutti e umane.
Non dogmatiche ma aperte e universali: le rileggo ogni tanto per trovare una spiegazione all’idea di fraternità e a quella di affidamento, che sono due buone ragioni per dare un senso al transito terreno, a qualunque credo ci si ispiri e persino per i non credenti, quel popolo di Dio che il Cardinal Martini amava in modo particolare e verso il quale prestava attenzione e ascolto.
“Francamente se dovessi dire alla fine della mia vita qual è il fondamento razionale della preghiera, non saprei dirlo. Prego perché Gesù ha pregato, prego perché il Signore ci invita alla preghiera, prego perché la preghiera è un mistero che ragionevolmente non sembra spiegabile. La preghiera ci mette nel cuore di Dio, nella sua mente, allarga la dimensione dello spirito. Nella preghiera sincera talvolta sgorgano delle lacrime: queste lacrime sono benedette quanto un battesimo, dobbiamo pregare per ottenere il dono delle lacrime. Una lacrima di pentimento scioglie la durezza di cuore e irriga la pianura desolata della nostra anima.
La via del silenzio è irrinunciabile. Quanto più crescono le responsabilità, tanto più cresce il bisogno di tempi di silenzio.
E d’altra parte la parola è un dono che comprende l’imprevedibilità appassionata di Dio e che ci coglie nella nostra sprovvedutezza. Soltanto così si rivela come parola vivente, che ha da dirci qualcosa di nuovo che non conosciamo ancora, se ci mettiamo di fronte ad essa in reale ascolto”.
Credo che in questa spiegazione che mi fu data stia tutta la grandezza e l’umiltà di un interlocutore di eccezione, un dono di grazia: la pacatezza e i toni miti e rasserenanti di queste parole hanno le sembianze di un’illuminazione disvelatrice, colmano il vuoto di quella inadeguatezza esistenziale di cui siamo inevitabilmente portatori e che riscopriamo ogni volta in cui – come in una sorta di “ricapitolazione di tutte le cose della nostra vita” (come direbbe San Paolo) , ci immedesimiamo nella riflessione e nel raccoglimento.
È questa la Chiesa che amo e che ritrovo oggi nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco: immersi nelle diaspore e nelle fatiche dell’esistenza, sofferenti per tutte i disagi della vita quotidiana ci trovo un valore oggi caduto in disuso: la ‘motivazione’, che sa dare forza ai convincimenti, e stempera i dubbi che ci assalgono nelle relazioni umane. Come scrisse Charles Peguy “la fede che più amo è la speranza”.
Guardare oltre, vedere lontano, provare la folgorazione di un attimo di intensità e raccoglimento.
Così come ripenso spesso a ciò che ebbi la fortuna di ascoltare dal Cardinale Ersilio Tonini, quando trascorsi una giornata con lui nella casa per religiosi di Ravenna.
“Mio papà – come ho detto era un salariato agricolo (un bifolco) – un certo giorno, quando un mio fratello di 17 anni, un muratore ‘magnifico’, aveva deciso di lasciare la famiglia per andare in America a raggiungere una zia che lì aveva fatto dei soldi, ci riunì tutti (5 figli, di cui tre maschietti) e disse: “vostro fratello vuole andare in America per fare un po’ di soldi ma io non ho piacere”.
“Ragazzi, tenetevi bene in mente quello che vi sto dicendo. Ciò che conta nella vita sono tre cose: un pezzo di pane, volersi bene e la coscienza netta”.
Un contadino, quando morì mio padre, mi raccontava dei tempi di quando dormivano nella stalla: ‘alla sera spegnevamo il lumino alle sei e ci svegliavamo alle quattro che fumava ancora’.
Tutto questo, però, senza mai maledire la fatica o il lavoro: fare il proprio dovere fino in fondo”.
Aveva appeso a fianco alla scrivania un Crocifisso e sopra una grande foto che lo ritraeva con sua madre.
Dopo avermi parlato di filosofia, di Platone, Aristotele, Kant, Hegel conoscendo a menadito i libri che in numero impressionante riempivano due grandi scaffali, aveva riassunto con quelle parole il vero senso della vita: “un tozzo di pane, volersi bene e la coscienza netta”. Mi serve e mi aiuta ripensarle spesso: mi chiedo quanto oggi siano dimenticate e quali siano le conseguenze di questo oblio nelle tassonomie di valori della nostra quotidianità, confusa da parole diverse, opinioni irricevibili, sentimenti divisivi e laceranti.
Dobbiamo fermarci un attimo in questa corsa frenetica verso l’ignoto, recuperare i valori veri della vita.
di Francesco Provinciali *