Ultimo Aggiornamento:
11 dicembre 2024
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Il femminicidio è il fallimento di una società che genera dei mostri

Francesco Provinciali * - 30.11.2024
Giulia Cecchettin

Presentando alla Camera dei Deputati la Fondazione intitolata alla figlia Giulia, Gino Cecchettin ha definito la violenza di genere “il frutto di un fallimento collettivo e non solo una questione privata” ponendo l’accento sulla necessità di educare le nuove generazioni. Trovo che siano parole appropriate, nate dal cuore di chi ha vissuto un dolore indicibile che non ha eguali: l’onda lunga della violenza che sta attraversando il nostro tempo ha molte facce e quella contro le donne ne è parte significativa perché riassume in sé retaggi storicamente radicati e si esprime in modo sempre più intenso e cruento, in forme nuove e tragicamente sorprendenti. In un mondo interconnesso e globalizzato i comportamenti umani sono il risultato di un riverbero che si ripercuote nell’intera società e coinvolge tutti. Chi nega che questa epoca sia caratterizzata da una crescita esponenziale e tristemente sofisticata delle forme di violenza – da quella fisica a quella simbolica – nasconde il vero a se stesso, le evidenze sono sotto gli occhi di tutti e ne abbiamo quotidiana notizia in ogni angolo del pianeta. Direi che ogni sua manifestazione ha una propria connotazione e specificità: generalizzare sarebbe un errore ma i sentimenti di odio, rancore, egoismo, vendetta, bramosia di possesso, sopraffazione li ritroviamo nelle guerre che stanno distruggendo il pianeta ma anche nella quotidianità a noi più vicina. Ho sempre sostenuto che basta aprire o chiudere una porta di casa per scoprire quanto le relazioni umane siano deteriorate nei sentimenti anche più quotidiani: non è così ovunque ma il bene è nascosto e facciamo fatica a scoprirlo e a valorizzarlo. Sarebbe puerile e retorico affermare che il male e la violenza ci sono sempre stati ed oggi se ne parla perché i mezzi di comunicazione ci fanno conoscere realtà, fatti e misfatti che altrimenti resterebbero nascosti: ciò è vero, basta ripassare la storia e le vicende anche lontane nel passato, ma il progresso raggiunto, un benessere più condiviso e diffuso – senza per questo dimenticare le sacche di emarginazione, povertà, sottomissione – avrebbero dovuto maturare maggiori consapevolezze circa il rispetto della dignità umana e il perseguimento del bene comune. Ma di quale progresso andiamo parlando se i principi più elementari di civiltà sono calpestati? La contraddizione più tangibile di questo tempo contrastato e difficile consiste – se mai - proprio nel gap che separa la teoria dalla prassi: siamo soverchiati da proclami, affermazioni di principio, enunciazione di ideali ma verifichiamo ogni giorno quanto i comportamenti umani eludano- fino a renderle retoriche- le parole con cui ammantiamo di perbenismo e ortodossia il ‘dover essere’, mentre di converso rubrichiamo un elenco sconfinato di azioni delittuose che si superano in efferatezza. Abbiamo da pochi giorni archiviato nella retorica delle celebrazioni inutili la giornata mondiale dedicata ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e poi quella che dovrebbe farci comprendere quanto sarebbe semplicemente doveroso e normale riservare alle donne – fatte oggetto di violenza - ciò che ogni essere umano merita in quanto persona. Non passa invece giorno senza che la cronaca ci informi di azioni criminali, uccisioni, delitti ascrivibili ai reati di genere: ci troviamo di fronte ad un imbarbarimento collettivo a cui siamo irresponsabilmente rassegnati e che non ci sorprende più, ogni fatto supera in efferatezza quello di cui leggevamo ieri, il senso di impunità diffuso è una delle cause di questa incessante reiterazione del male. Ci si chiede come neppure la paura di essere scoperti fermi la mano degli assassini: non esiste giustificazione alcuna per comprendere i femminicidi dilaganti la cui imprevedibilità è persino disarmante, una vera sconfitta per la giustizia che giunge sempre postuma e spesso non altrettanto commisurata all’entità del reato, nel suo essere punitiva e riparativa. Viviamo nella società delle attenuanti generiche: leggendo alcuni commenti postati a margine delle parole del padre di Giulia Cecchettin viene da rabbrividire, nemmeno una tragedia umana di questo genere redime i cuori verso l’umana condivisione, anche nel dolore più profondo in questo mondo di apparenze e di confusione e ribaltamento di valori non trova spazio la pietas, la compassione. Siamo in presenza di solitudini siderali che ci allontanano dalla comprensione degli altri, ciascuno si radica in spiegazioni che fanno della dietrologia il nascondimento della realtà. Trovo che circoli molta ipocrisia e altrettanto affettato giustizialismo, ci si divide tra l’inspiegabile (“era un bravo ragazzo”) e il bieco giustizialismo forcaiolo. Ha invece ragione il padre di Giulia: solo l’educazione al bene può migliorarci: impresa titanica, certamente, e di lunga deriva. Che non riguarda solo i giovani perché chi ha fallito davvero è la generazione dei padri, concessiva e indulgente nel proteggere i propri figli, a cominciare dalle spedizioni punitive contro la scuola e i suoi insegnanti fino agli omicidi di coetanei o agli stupri di gruppo, cercando magari la sponda di qualche avvocato che faccia appello all’offuscamento della mente, ai “non ricordo” e all’incapacità di intendere e di volere. E’ la premeditazione che spiega nove casi su dieci il movente, troppa gente gira armata di pistole e coltelli, in tanti covano vendetta e punizione esemplare verso donne colpevoli solo di volersi sottrarre ad una soccombente sottomissione. La lunga serie di delitti evidenzia rituali studiati nella maggior parte dei casi: si prepara minuziosamente la cassetta degli attrezzi per uccidere e il kit del perfetto omicida, mentre a posteriori l’abilità nel mentire è sorprendente, come l’invenzione di alibi o la ricerca di giustificazioni inaccettabili.  Come ben spiega il Prof. Andreoli non ci si può nascondere dietro un’immaginifica follia del momento, poiché assai più radicate e consapevoli – miseramente consapevoli, direi – sono le cause che spingono a fare del male. Se il ‘fallimento è collettivo’ bisogna interrogarsi a fondo su questo declino: sul banco degli imputati siedono i social, troppo spesso veri megafoni del male e protagonisti consapevoli della confusione tra reale e virtuale: da quando hanno preso il sopravvento seminano in prevalenza odio e rancore, sono loro i veri antagonisti della famiglia e della scuola, impugnando lo scettro di una pessima educazione che spinge verso cattivi esempi. Anche l’enfatizzazione dei ravvedimenti postumi o il rituale delle commozioni condivise, la coreografia delle fiaccolate e i palloncini liberati al cielo tra gli applausi a un funerale fanno parte di una retorica di dubbio profilo etico e simbolico: il pentitismo non paga e tra candele e dediche, lacrime e abbracci potrebbe nascondersi il prossimo malintenzionato, tanto è diffusa a livello sociale la mistificazione tra il dire e il fare. Solo l’intimo ravvedimento, la mitezza dell’animo e dei sentimenti, la sincera ricerca del bene, il rispetto degli altri possono salvarci da questa ecatombe che miete vittime con disarmante facilità. Ma tutto questo passa attraverso la coscienza morale di cui ogni essere umano è dotato - fosse anche un lumicino da rinfocolare - salvo eluderla a priori, lasciata inerte e spenta nella mente e nel cuore.