Coalizioni in difficoltà
Le coalizioni in politica sono strumenti complicati da maneggiare. Se si fanno intorno ad un partito largamente preminente gli altri hanno sempre l’incubo di essere fagocitati da questo. Se raccolgono componenti più o meno alla pari è difficile che evitino comunque la tentazione di scavalcarsi reciprocamente.
Questa banale realtà la stiamo constatando tanto nella coalizione governativa quanto in quella delle opposizioni (in tutte e due prevale il primo modello). È abbastanza curioso che in entrambi i campi si invochi una coesione ideologica che dovrebbe favorire le intese: suona come un lontano retaggio di tempi in cui i partiti si coalizzavano, almeno in parte, per l’adesione ad una comune interpretazione delle prospettive politiche da proporre e ad una qualche ideologia generale. Peraltro, se si volesse dire le cose come stavano, quel tipo di coalizioni era entrato in crisi già a fine anni Settanta del secolo scorso con il fallimento della formula legata alla cosiddetta solidarietà nazionale. Dopo di allora le coalizioni erano state molto poco coese, proprio per il tramonto delle culture ideologiche: basta ricordare le tensioni in quelle fra DC, PSI e altri partiti, o la difficoltà del PCI di mettere in piedi un raggruppamento alternativo.
Nella realtà di oggi immaginarsi coalizioni che si raccolgono attorno ad una prospettiva politico-ideale realmente condivisa è impresa improba. Ormai siamo in presenza di sommatorie di partiti che si uniscono per la conquista del governo, riuscendoci o proponendosi di riuscirsi in futuro, più in là non si riesce ad andare.
Il parallelo svolgersi di occasioni di celebrazione delle due coalizioni contrapposte, l’una attorno al meeting di Noi Moderati, l’altra attorno a quello dei Verdi, hanno plasticamente messo a nudo le fragilità di entrambe. Nel destra-centro si proclama quanto ci si vuole bene, ma la cronaca ancor prima che l’analisi politica mostrano un raggruppamento i cui componenti sono alla caccia di voti da sottrarsi reciprocamente, per cui le tensioni sono molto forti. Solo Giorgia Meloni riesce a trarre veramente vantaggio dalla sua posizione di guida del governo, perché può esibire alcuni buoni successi della politica che ha promosso da Palazzo Chigi. C’è da parte sua indubbiamente dell’esagerazione nel sottolineare i successi, così come non è che paghi molto il continuo rinfacciare ai disastri ereditati dai governi di altro segno ciò che non è riuscita a fare. Tuttavia per lei un ritorno di consenso c’è, anche se mostra qualche modesta incrinatura.
Lo stesso non si può dire per Lega e FI. Salvini usa la sua posizione ministeriale più che altro per fare demagogia: in qualche caso può anche funzionare, come quando si presenta come il tutore dei cittadini messi in difficoltà da un eccesso di scioperi nei pubblici servizi, ma in generale la strumentalità delle argomentazioni è anche troppo evidente. Al di là del segretario, la presenza della Lega è evanescente: quella che c’è, rimanda ai territori (Zaia, Fedriga), ma suona più come alternativa alle impostazioni dell’ex Capitano che come sostegno al progetto della coalizione di governo.
Qualcosa di simile si può dire per FI. Tajani ha fatto un mezzo miracolo tenendo bene in vita un partito dato per in via di dissoluzione, ma la sua posizione di ministro degli Esteri difficilmente porta più di tanto consensi, per cui anche quel partito deve muoversi nel solco della politica dei favori da elargire a qualche settore, senza riuscire a convergere su una impostazione progettuale che abbia ampia forza attrattiva.
Sul fronte delle opposizioni va anche peggio. Ridurre la proposta della coalizione alla intesa su qualche generale e inevitabilmente generico obiettivo (difesa della sanità pubblica, della scuola pubblica, dell’incremento dei salari, ecc.) non riesce a marginalizzare dissensi ben più rilevanti. Nella politica estera il contrasto fra un pacifismo di maniera e una politica più realista che però ci si vergogna a difendere apertamente espone alla luce del sole non solo una mancanza di coesione, ma soprattutto l’assenza di leadership politiche che su quei temi centrali sappiano imporre un confronto risolutivo (e lo si capisce anche perché nel PD su quei temi non si riesce a trovare una linea discriminante e condivisa).
Altrettanto si dica per il delicatissimo campo delle politiche ambientali, altro terreno su cui ci si arrende all’imbarazzante convivenza fra l’accettare impostazioni radicaloidi e il gestire nella pratica soluzioni incerte, che però non spingono a fondo in nessuna direzione.
La politica sociale sta diventando ostaggio del populismo di alcune componenti sindacali, anche quando sarebbe saggio prenderne le distanze. L’agitare lo spettro di una situazione politica in cui si vuole attentare al diritto di sciopero, spingersi ad ipotizzare l’avanzare di uno stato di polizia repressivo, non ci sembra possa convincere chi banalmente segue le cronache. L’aver agitato il vessillo della contrapposizione fra antifascisti e fascisti di ritorno non pare al momento aver dato grandi risultati, neppure nel tenere insieme la coalizione dove sta un M5S che su quel terreno non è che dia grandi contributi.
Si può interpretare in maniera divergente questa situazione che coinvolge entrambi i campi dello schieramento politico. La prima interpretazione spinge a concludere che una congiuntura del genere mantiene a lungo al governo l’attuale maggioranza, perché a dispetto delle tensioni interne tutte le componenti hanno interesse a non perdere il potere che gestiscono. La seconda lascia aperto il dubbio che una situazione in cui tutti tirano la corda in opposte e molteplici direzioni possa poi implodere sfuggendo di mano e portando a quella dissoluzione anticipata della legislatura di cui si comincia a vociferare.