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Capoluoghi: un segnale d’allarme per il centrosinistra

Luca Tentoni * - 27.06.2015
Matteo Renzi e Walter Veltroni

Alle recenti elezioni comunali il centrosinistra ha incontrato più difficoltà del previsto, soprattutto nei ballottaggi (dove di solito aveva un miglior rendimento) e persino nei comuni capoluogo (Venezia e Arezzo fra tutti). C'è, dunque, qualche motivo di riflessione soprattutto per il Pd, non solo (e forse non tanto) perché nel 2016 si voterà per il rinnovo dei consigli comunali di Torino, Milano, Bologna, Napoli, Cagliari (e forse Roma). La preoccupazione viene da un segnale d'allarme facilmente percepibile studiando i dati delle amministrative (regionali e comunali) di quest'anno: il centrosinistra, che ha sempre avuto le sue roccaforti nei capoluoghi, soprattutto in quelli di regione, sembra gradualmente perdere questa "rendita geosociale". Il problema può non riguardare soltanto le città delle amministrative 2016 (dove, peraltro, il centrosinistra governa: a Torino, Milano, Bologna e Cagliari, mentre a Napoli c’è l’altra sinistra di De Magistris) ma la capacità di tenuta in quello che è - al di là delle "zone rosse" - il vero "granaio" del Pd e della sua "famiglia politica". Nei 19 capoluoghi regionali e nei due delle province autonome di Trento e Bolzano, infatti, vivono solo 7,5-8 milioni di elettori sui 49 complessivi. eppure, nonostante nelle "capitali regionali" l'astensionismo sia più alto (45% contro 41,3% nazionale alle europee 2014, 26,2% contro 24,8% alle politiche 2013 e, limitatamente alle sette regioni dove si è votato nel 2015, 52,6% contro 50,7%), i "pochi" voti validi espressi (si è scesi dai 6,3 milioni del 2006 ai 4,2 delle europee 2014) sono stati sempre decisivi, alle politiche, per sospingere il centrosinistra nella competizione col centrodestra. Se la proporzione di collegi vinti nei 21 capoluoghi fosse stata come quella degli altri centri, quasi certamente Prodi non sarebbe diventato Presidente del Consiglio nel 1996, quando la sua coalizione e Rifondazione comunista conseguirono per poche unità la maggioranza alla Camera dei deputati. Allo stesso modo, il Professore - sempre a Montecitorio - vinse le elezioni del 2006 per 24mila voti su scala nazionale, ma il vantaggio nei capoluoghi di regione fu di circa 500mila voti. Il premio di maggioranza scattò grazie al 51,9% conseguito nelle "capitali regionali", insomma. Così come, nel 2013, Bersani riuscì ad assicurarsi il premio alla Camera non negli altri comuni (dove il centrodestra di Berlusconi era in vantaggio (circa 370mila voti) ma nei capoluoghi di regione, dove il centrosinistra recuperò e vinse, risultando a livello nazionale la coalizione più votata per 126mila voti. In altre parole, è grazie ai consensi decisivi delle "roccaforti metropolitane" che il centrosinistra ha potuto vincere tre elezioni politiche. Se il comportamento elettorale dei centri maggiori fosse stato identico a quello degli altri comuni d'Italia, il centrodestra avrebbe avuto buone probabilità di aggiudicarsi ininterrottamente la vittoria dal 1994 al 2013 (compreso). Nei 21 comuni capoluogo il centrosinistra (esclusi alleati che abbiamo classificato nella “famiglia politica” di centro, come l'Udeur) ha ottenuto il 51,9% dei voti nel 2006, il 47,9% nel 2008, il 51,4% nel 2009 (europee), il 36,7% nel 2013 e il 51,6% nel 2014 (europee). In quest'ultima occasione il risultato è stato molto vicino a quelli di 2006 e 2009, però nel primo caso l'Ulivo ebbe il 33,7%, nel secondo il Pd conseguì il 30% e nel 2014 i Democratici arrivarono al 43,5%. Negli ultimi dieci anni, insomma, il Pd è passato dall’avere la maggioranza assoluta (ma non schiacciante) nel centrosinistra (60-65%: 2006-2011) al predominio (80-85% nel 2013-2014, ma fra il 75 e l'80% anche nei sette capoluoghi dove si è votato per le regionali 2015). È interessante notare, inoltre, che la media dei voti al centrosinistra nei capoluoghi delle sette regioni andate alle urne nel 2015 era stata, nel 2014, molto vicina a quella dei 21 nazionali: 51,9% contro 51,6%. In precedenza, fra il 2008 e il 2013, il dato nelle sette regioni era stato più alto dell'1-2%. Il campanello d'allarme al quale facevamo cenno è rappresentato dal fatto che il centrosinistra, alle regionali 2015, ha perso il 10,2% nei sette capoluoghi, scendendo al 41,7%, secondo peggior risultato dopo il 37,9% del 2013, contro il 50-53% del periodo 2008-2010 (politiche, europee, regionali), mentre negli altri comuni il calo è stato del 6,8% (dal 46,2% del 2014 al 39,4%: molto superiore al 30,9% delle politiche 2013 e non troppo inferiore rispetto al 41,6-42,9% del periodo 2008-2010).

 

Due competizioni per un solo Paese?

 

Nei capoluoghi di regione, come abbiamo visto, il centrosinistra è più forte e competitivo che altrove, al punto che persino nel 2008 la "coalizione Veltroni" (Pd-Idv) ha prevalso col 43,6% dei voti contro il 41,7% di quella di Berlusconi (Pdl-Lega-Mpa). In pratica, il vantaggio competitivo che per circa 20 anni il centrodestra ha avuto nel Paese (interrotto per due volte - 2006 e 2013 - per pochi voti e una volta - 1996 - per defezione della Lega) si rovescia a favore del centrosinistra nelle "capitali regionali". Ovviamente, la competizione che "pesa" maggiormente è quella negli altri comuni, dove gli elettori sono 39-41 milioni contro i 7,5-8 delle "piccole capitali". Riguardo gli ultimi due anni, però, le differenze tendono ad attenuarsi, sia pure lievemente. Mentre nella seconda metà dello scorso decennio, in questa classe di comuni, il centrosinistra accentuava i propri progressi e attenuava le sconfitte (-4% contro -5,1% medio nazionale fra il 2006 e il 2008; +3,5% contro +1,5% fra il 2008 e il 2009), ora la situazione è capovolta. Nei comuni non capoluogo di regione, nel 2013, l'ex Unione ha perso il 10,1% dei voti rispetto al 2009 e il 9,8% sulle politiche 2008, mentre nei capoluoghi ha ceduto rispettivamente il 14,7% e l'11,2% dei voti. Nel passaggio 2013-2014 (politiche-europee) il centrosinistra ha guadagnato il 14,9% nelle "capitali regionali" come negli altri centri, tuttavia ha guadagnato proporzionalmente più consensi in valore assoluto nei comuni “minori”, a causa del maggiore non voto (schede bianche, nulle, astensione) delle città capoluogo. Nell'ultimo passaggio, il più recente - limitato alle sette regioni ordinarie dove si è votato il 31 maggio scorso - il centrosinistra ha perso (come si accennava) il 10,2% nei capoluoghi regionali rispetto alle europee 2014 e guadagnato il 3,8% sulle politiche 2013, mentre negli altri centri ha rispettivamente ceduto il 6,8% sul 2014 e ottenuto l'8,5% in più rispetto al 2013. Le differenze fra la percentuale di voto al centrosinistra nei comuni maggiori rispetto agli altri si è stavolta ridotta al 2,3%, mentre era stata pari al 5,7% nel 2014, al 7% nel 2013, al 9,4% delle regionali 2010, al 9,9% delle europee 2009, all'8,4% delle politiche 2008 e all'8,3% delle politiche 2006. In gran parte ciò è dovuto ad un forte cedimento delle "zone rosse" e in particolare dei loro capoluoghi (ampiamente rappresentati, nel campione parziale esaminato nel 2015, rispetto al totale nazionale disponibile per tutte le elezioni degli anni precedenti), ma la ridotta capacità delle grandi città di "trainare" il centrosinistra rispetto a quanto succedeva nello scorso decennio è un motivo di riflessione non solo in vista delle comunali 2016 - come dicevamo - ma anche e soprattutto nella prospettiva di eventuali elezioni politiche, da qui al 2018.

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali

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