200 anni fa la sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vienna: nasceva l'Europa moderna
Tra Waterloo e Vienna – Grandiose le celebrazioni, in Belgio ma non solo, e inevitabili le polemiche per il bicentenario della sconfitta di Napoleone a Waterloo. Era infatti il 18 giugno 1815 quando l’imperatore, che aveva riconquistato il potere in Francia cento giorni prima, fu battuto dagli eserciti inglese e prussiano facenti parte della cosiddetta Settima Coalizione; esiliato definitivamente presso Sant’Elena, vi morì il 5 maggio di sei anni dopo. Nonostante siano passati due secoli, è una sconfitta che brucia ancora l’orgoglio patriottico dei francesi e resta, come ha scritto Le Figaro, «un tabù». Per questo si è rischiato l’incidente diplomatico quando il governo belga ha avanzato l’idea di coniare una moneta commemorativa da due euro in ricordo di Waterloo.
E tanto, naturalmente, si è scritto e detto nelle scorse settimane a proposito delle ragioni dell’esito di quella grandiosa battaglia o di cosa sarebbe successo se a Waterloo avesse vinto Napoleone e nuovamente ci si è chiesti se la sua fu «vera gloria». In chiave storica, tuttavia, sarebbe forse meglio soffermarsi sul significato di medio e lungo periodo di quegli eventi, sul loro valore di cesura periodizzante. Perché se è vero che è sempre difficile, e in parte arbitrario, fissare delle date simbolo» entro cui collocare il passato, tutti gli studenti sanno bene che il 1815 è una di queste. Non già per la sconfitta di Napoleone in sé, quanto soprattutto per il nuovo assetto che le potenze vincitrici, congiuntamente al governo francese «legittimo» di Luigi XVIII, vollero dare all’Europa.
Svoltosi tra l’autunno 1814 e il giugno 1815, il Congresso di Vienna era stato convocato per risolvere gli innumerevoli problemi aperti dalla Rivoluzione Francese e dalle conquiste napoleoniche e cercò di farlo – com’è noto – attraverso i principi del legittimismo dinastico e della «restaurazione» dei valori e degli equilibri che erano stati compromessi dall’espansione rivoluzionaria. Anche se fu impossibile ripristinare completamente il vecchio «ordine» dell’Ancien Régime – la Rivoluzione Francese aveva infatti innescato un processo di riformulazione delle basi politiche e giuridiche degli Stati che non si poté arrestare –, per diversi aspetti l’eredità del Congresso di Vienna è arrivata fino a noi. Due su tutti: in primo luogo le grandi potenze identificavano oramai se stesse come «l’Europa»; inoltre scelsero di risolvere le controversie all’interno di un quadro legittimato e condiviso, anziché tramite rigide contrapposizioni di potenza o l’esclusivo perseguimento di interessi particolaristici.
L’Europa e il «concerto europeo» - Non nacque allora l’idea dell’esistenza di una comunità di Stati propriamente europei, ma se fino a quel momento era stata vaga e astratta al Congresso di Vienna si trovò incarnata in una struttura dotata di poteri effettivi e di una piena legittimazione. Da un lato, infatti, l’Europa riconosceva se stessa come uno spazio politico fondato sul diritto, dove erano «legittimi» i governi sanzionati dalla tradizione, dalla legge e dalla religione; contemporaneamente, però, cominciò a prendere forma il principio secondo cui l’«ordine» doveva essere garantito da trattati che impegnavano lo Stato nella sua totalità, e non più solo la persona del sovrano. Dall’altro lato, si consolidò la convinzione che la «comunità europea» dovesse dotarsi di un braccio operativo, una sorta di direttorio con la responsabilità di costruire, e successivamente tutelare, il nuovo assetto del Continente; in pratica era la stessa idea che aveva mosso le grandi potenze a fare fronte comune contro le mire egemoniche di Napoleone. Tale braccio operativo divenne il cosiddetto «concerto europeo», costituito – come disse il rappresentante britannico lord Castlereagh – dalle leading powers, le grandi potenze che si predisponevano a cooperare al fine di dare un’amministrazione comune agli affari europei.
I contrasti non mancarono e le esigenze dei diversi paesi non furono facili da armonizzare; prevalse tuttavia lo spirito della collaborazione, delle autolimitazioni e dei compromessi e il ritorno al potere di Napoleone nei cento giorni che precedettero la sconfitta di Waterloo diede alle potenze europee, che già stavano concludendo il Congresso, l’occasione di esercitare una prima azione congiunta negli affari interni di un altro paese. Tra alti e bassi e livelli diversi di efficacia, il «concerto europeo» funzionò per circa quarant’anni, ovvero fino all’esplodere dei grandi fermenti nazionalistici che portarono all’unificazione dell’Italia e della Germania. Ma se l’orientamento sempre più rigido e reazionario che assunse il «sistema di Vienna» ne rese inevitabile il declino, a sopravvivere di quell’esperienza fu l’idea che i problemi del Continente non potessero ricevere soluzioni unilaterali bensì collegiali e pattuite, soluzioni per l’appunto «europee».
Il sistema internazionale: equilibrio e sicurezza - Dalle ceneri della sconfitta napoleonica e del Congresso di Vienna emersero dunque sia l’ambizione di stabilire regole e principi validi per l’intera Europa, sia il primo tentativo di strutturare un sistema diplomatico stabile volto a garantire la pace e la sicurezza internazionale. Certo, a Vienna non nacque alcuna organizzazione simile a quelle che saranno la Società delle Nazioni, l’ONU o l’Unione europea; e l’orizzonte ideologico dei vari Metternich, Talleyrand e Castlereagh era quanto mai lontano dall’idea di un mondo safe for democracy come lo avrebbero concepito le liberal-democrazie europee e gli Stati Uniti nel corso del XX secolo. Ma il «concerto» creato a Vienna aveva già in nuce alcuni dei presupposti attorno ai quali si sarebbe strutturato l’ordine internazionale nei due secoli successivi. Dall’aspirazione a creare una governance globale – e all’alba del XIX secolo il «mondo» coincideva di fatto con l’Europa – alla volontà di perseguire una politica dell’«equilibrio» (la balance of power dei britannici) per impedire l’emergere di una potenza egemone come lo era stata la Francia napoleonica; dai metodi della cooperazione e della consultazione (la cosiddetta diplomacy by conference) al riconoscimento che le dinamiche internazionali erano ormai parte integrante della «grande politica».
Certo sul Congresso di Vienna continuano a pesare l’orientamento conservatore, l’ideologia legittimista, la chiusura di fronte ai nuovi ideali di libertà, progresso e autodeterminazione dei popoli; ed è forse inevitabile che nelle celebrazioni di quest’anno si sia preferito ricordare Waterloo e la fine del grande impero napoleonico, nonostante le tensioni e i malumori che ciò ha suscitato in Francia. Ma se l’ordine della Restaurazione non fu in grado di fermare, con buona pace di Metternich, il processo di modernizzazione politica e culturale, a Vienna ci fu anche altro. Ovvero la consapevolezza che solo mediante il dialogo continuo e la collaborazione sugli aspetti vitali delle relazioni internazionali si possano favorire il mantenimento della pace e la realizzazione degli interessi comuni. Un insegnamento che non manca di attualità oggi.
di Paolo Pombeni
di Giulia Guazzaloca
di Novello Monelli *