Ultimo Aggiornamento:
04 maggio 2024
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Internet business: esserci o non esserci

Patrizia Fariselli * - 09.05.2015
Hutchinson Whampoa

Gli sviluppi in corso nella Internet economy hanno recentemente impresso una spinta accelerata verso configurazioni che finora erano immaginate nei modelli di espansione del business attorno alle tecnologie digitali di rete, ma si manifestavano ancora per tentativi, a macchia di leopardo, in modo incoerente e con alta variabilità. Nell’universo anarchico della rete delle reti si sta progressivamente restringendo lo spazio di operatività delle sue contraddizioni, a favore del consolidamento delle posizioni forti, a scapito di quelle deboli.

La principale contraddizione emerge dal conflitto latente tra una rete progettata come bene pubblico – aperta, distribuita, neutrale, libera – e la sua gestione da parte di operatori di mercato che la usano per finalità private. Il  modello virtuale dell’architettura di Internet esclude che la rete sia appropriabile da parte di chi fornisce gli accessi a Internet (ISP), né che essi possano esercitare un controllo selettivo sui dati durante il loro percorso in rete. In questo consiste la neutralità della rete, di cui abbiamo già scritto in articoli precedenti. Su questa rete il ruolo degli ISP è cruciale, così come quello degli operatori che offrono servizi in rete (OTT), come ad esempio Google, agli utenti che vi accedono. Gli investimenti di tutti questi operatori sono agevolati dalla presenza di meccanismi (effetti network, esternalità) che, amplificando il valore della rete in ragione della numerosità degli utenti, spingono ISP e OTT a concentrarsi prioritariamente sull’acquisizione di una massa critica di utenti dei loro servizi al di sotto della quale la loro rete si dissolverebbe, ma sopra la quale essa cresce in progressione geometrica o esponenziale, e non in modo lineare rispetto agli investimenti. Nella fase di consolidamento della massa critica dei propri bacini di utenti, gli ISP e OTT attuano politiche di attrazione – o di sottrazione ad operatori concorrenti – facendo ricorso a varie tecniche di marketing, che in generale tendono ad offrire gratis o a bassissimo costo il servizio di base per poi innestare su questo l’offerta a pagamento di servizi accessori, complementari, supplementari, ecc. (ad es. la modalità freemium, che è una contrazione di free + premium). Inoltre, una volta dentro ad una rete che abbia superato o stabilizzato la propria massa critica, sugli utenti agiscono altri meccanismi inerziali che alzano il costo di uscire o di cambiare rete, a meno di una guerra di prezzi, com’è avvenuto recentemente tra gli operatori di telefonia mobile in Italia, che però è svantaggiosa per tutti i concorrenti e favorisce solo gli utenti finali.

In sostanza, la disponibilità di una rete pubblica attira simultaneamente utenti e operatori che si aspettano di godere di un bene pubblico, in un regime condivisione di informazione e servizi retribuiti al costo marginale, e utenti e operatori che la usano per scambiare informazione e servizi secondo la logica di mercato basata sul principio di scarsità e orientata al profitto, e cercano di appropriarsi del surplus dei consumatori che sono disposti a pagare un prezzo superiore al costo marginale. I due spazi possono convivere come spazi distinti nella misura in cui utenti e operatori possono scegliere – e ottenere - tra servizio pubblico e servizio privato senza incontrare barriere tecnologiche, e nella misura in cui c’è una pluralità di operatori che offre servizi differenziati in regime di concorrenza.

Il problema sorge quando i due spazi si incrociano e non si distingue più il confine, e questo si verifica quando gli operatori privati sfondano lo spazio pubblico con manovre che compromettono la libera scelta degli utenti e degli operatori concorrenziali. Ciò avviene in diversi modi. Innanzitutto utilizzando risorse catturate agli utenti nello spazio pubblico (i dati personali) per venderle (sotto forma di profili/target) sul mercato della pubblicità online; mediante l’irruzione di offerte pubblicitarie negli spazi che gli utenti percepiscono e usano come spazi pubblici perché vi accedono senza pagare (ad es. i social networks); condizionando la scelta tra servizio free e servizio a pagamento differenziando l’offerta degli stessi servizi (ad es. Youtube) con o senza pubblicità; imponendo il blocco all’accesso di servizi (ad es. informazione) senza prendere in considerazione le regola del fair use, e cioè le eccezioni al copyright; differenziando la velocità e la qualità dell’accesso sulla base della disponibilità a pagare dell’utente. Questi sono solo alcuni esempi, tra quelli di cui facciamo quotidianamente esperienza quando entriamo in Internet, e l’esperienza è significativamente peggiorata con l’andar del tempo.

Da una parte, è aumentato l’assalto dei venditori e una quota crescente del nostro tempo di navigazione viene forzatamente impiegato a chiudere finestre pubblicitarie che deflagrano sul nostro schermo, o a cercare la maniera per chiuderle; a compilare moduli di registrazione per scambiare dati personali contro informazione; a sottoscrivere clausole di privacy policy che non leggiamo; a rimandare inviti pressanti ad aggiornare a pagamento versioni di software che abbiamo scaricato gratis; a cancellare cookies che abbiamo seminato nostro malgrado, salvo ripristinarli quando ci accorgiamo che con essi se ne va una parte del servizi. Si sta esaurendo la fase free e i venditori stanno andando all’incasso del premium su tutta la gamma di beni e servizi.

Dall’altra parte, la quantità e la qualità dell’informazione accessibile senza pagare stanno decadendo. Se si escludono i siti istituzionalmente dedicati alla condivisione nell’ambito scientifico, amministrativo, politico, l’offerta che sta a cavallo tra la sfera pubblica (dal punto di vista del diritto all’informazione) e quella privata (dal punto di vista della proprietà dell’informazione) è sempre più ridotta, caotica e perlopiù annunciata: l’accesso libero è alla vetrina, a titoli che rimandano a contenuti a pagamento.

In questo tiro alla fune tra rete pubblica e servizi privati la posizione degli OTT non è univoca. Quando ad esempio hanno interesse ad acquisire utenti offrendo servizi che si basano su contenuti offerti da altri operatori (ad es. Google News diffonde gratis notizie pubblicate da testate giornalistiche), si difendono dall’attacco degli editori appellandosi al diritto all’informazione; quando operano servizi in rete tramite un motore di ricerca (ad es. indicizzazione di pagine Web mediante Google) propongono un servizio pubblico neutrale, che però è il risultato di algoritmi segreti e di accordi con operatori di mercato che comprano le posizioni dei loro segnali pubblicitari a prezzi che variano a seconda del ranking. L’utente, cioè, non può essere certo che il ranking sia effettivamente imparziale.

In questo territorio nebbioso la certezza dei confini dipende sostanzialmente dal grado di concorrenza nel mercato dei servizi erogati sulla rete Internet, e dalla capacità delle autorità antitrust di contrastare gli abusi di posizione dominante e le barriere alla libera concorrenza. E’ una prova di forza tra mercato e policy molto ardua, specialmente perché siamo in presenza di una crescente tendenza alla concentrazione dei business che traggono da Internet la loro linfa. Imprese come Google non solo sono monopoliste nei servizi sui quali hanno costruito la loro leadership (il motore di ricerca) svolgendo un ruolo di intermediazione tra domanda e offerta di servizi (pubblici e privati) sulla rete pubblica, ma stanno espandendosi orizzontalmente in attività tipiche di altri operatori di mercato per offrire in proprio un ampio ventaglio di servizi differenziati, sfruttando la capacità di agganciare un’immensa rete di utenti sulla rete pubblica mediante la propria piattaforma di intermediazione. Infatti, oltre al motore di ricerca Google, la piattaforma Crome include numerosi altri servizi di accesso a informazione, comunicazione, social networking (Google News, Google Maps, Gmail, Youtube, Google+, ecc.) che mirano a fidelizzare l’utente non più a un singolo servizio, ma alla piattaforma. Su questa piattaforma di servizi di intermediazione, comunque, Google non costruisce solo il business dell’advertising (peraltro lucrosissimo), ma sta sviluppando altri business collaterali nel settore dell’e-commerce, per esempio con Google Shopping, servizio di comparazione dei prezzi che è recentemente entrato nel mirino dell’autorità antitrust europea, o con i servizi di consulenza nel settore del lusso, basati sulla possibilità di ricavare i trend più popolari dall’analisi di miliardi di ricerche relative alla moda effettuate dai suoi utenti. Ancora, per dribblare le contese con gli editori di news, Google ha investito 150 milioni di Euro in 3 anni per lanciare la Digital News Initiative in collaborazione con otto dei principali editori europei (la Stampa, per l’Italia) con lo scopo di supportare l’innovazione tecnologica nel settore.

In parallelo, Google è entrata nel settore degli smartphone con il suo sistema operativo Android, che ha una quota di mercato mondiale superiore all’80%, e ha lanciato sul mercato un suo dispositivo mobile Google-Phone Nexus 6 fabbricato da Motorola Mobility. Attualmente, Google sta entrando nel settore delle telecomunicazioni, facendo accordi con grandi operatori di rete per diventare un operatore virtuale di telefonia mobile (voce e dati) negli Stati Uniti, ma sta trattando anche con Hutchinson Whampoa per ottenere in Europa l’accesso all’ingrosso alle reti mobili in cui opera il gruppo di Hong Kong con l’operatore 3, tra cui l’Italia. Inoltre, con il programma Google Fiber, Google sta investendo in un’infrastruttura in fibra ottica per cablare alcune decine di grandi città americane; infine, ha lanciato un’iniziativa contro il digital divide per dare connettività ad aree non servite tramite satelliti e droni ad energia solare. Proprio in questo settore, due mesi fa ha investito 300 milioni di dollari in un’iniziativa in collaborazione con il maggior fornitore di energia solare negli USA, per installare gratis impianti fotovoltaici in circa 25.000 abitazioni in 15 Stati americani in cambio dell’impegno dei proprietari a rifornirsi di energia elettrica o a noleggiare pannelli da SolarCity. Infine, nella stagione del Cloud Computing non poteva mancare l’offerta di un servizio Google anche in questo settore, che si propone alle aziende come un servizio di archiviazione dati “semplice, veloce e a basso costo”.

Quello che emerge dal caso Google, dunque, è la dilatazione tentacolare di un’impresa negli spazi vuoti all’intersezione tra rete pubblica virtuale e mercato. In questi spazi stanno utenti-consumatori, imprese che offrono servizi di intermediazione tra domanda e offerta, e imprese che concentrano sotto il loro marchio sia piattaforme che servizi proprietari lungo un ampio spettro di business che fa perno sul controllo monopolistico di reti globali di utenti e di prodotti. In questo modello l’alternativa è tra ‘esserci’, cioè occupare tutto lo spazio, e ‘non esserci’. Modelli alternativi di business nell’ambiente digitale di rete, che valorizzano la natura pubblica di Internet anziché deprimerla, esistono e funzionano, ma il loro spazio operativo si restringe. In assenza di una concorrenza libera che assicuri pluralità di modelli, e in presenza di monopoli-piovra che riempiono tutto lo spazio, occorre un forte commitment politico per garantire uno spazio competitivo all’innovazione e alla libera scelta degli utenti. Negli USA Obama ha esercitato il suo peso a favore della qualificazione di Internet come servizio pubblico, convinto dalla lobby delle imprese che investono e innovano sugli spazi vuoti. Le reazioni dei grandi ISP sono molto negative, e qualcuno prosaicamente sostiene che Obama ha ricevuto un sostegno elettorale talmente cospicuo da questa lobby che prima o poi ci dovrà essere una marcia indietro. Vedremo. In Europa, l’attuale ostilità esibita dagli Stati membri nei confronti degli OTT americani che dominano il mercato europeo senza pagare tasse, sfidando le normative antitrust, soffocando la concorrenza, non sembra ispirata dalla difesa della natura pubblica di Internet o da modelli alternativi di economia digitale di rete (che è invece l’orientamento del Parlamento europeo), ma piuttosto dalla speranza di stritolare i grandi player americani e liberare il campo a dei Google europei, senza modificare il modello. Vedremo.

 

 

 

 

* Patrizia Fariselli è docente di Economia dell'innovazione presso l'Università di Bologna