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01 maggio 2024
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Le colpe dei padri.

Culture dell’odio e conflitti generazionali nell’ultimo film di François Ozon

Marco Mondini - 12.10.2016
Casting Frantz di François Ozon

L’uomo che ho ucciso

 

«Se muoiono i loro figli, noi brindiamo con la birra e la chiamiamo vittoria. Se muoiono i nostri figli, loro brindano con il vino e la chiamiamo sconfitta» proclama il dottor Holderlin in Broken Lullaby, film che Ernst Lubitsch realizza alla fine del 1931. In questo coraggioso adattamento cinematografico del dramma L’homme que j’ai tué di Maurice Rostand, si ritrova tutto il trauma del regista tedesco, artista colto e cosmopolita, di fronte alla recrudescenza del nazionalismo tedesco negli anni Trenta, rivelazione di una Germania incapace di smobilitare la propria cultura di guerra e di seppellire l’ascia del revanscismo. Di lì a poco, il nazismo di Adolf Hitler avrebbe conquistato il potere. Gli squallidi frequentatori di birreria che proclamano la necessità di una vendetta contro la Francia, contro cui il personaggio di Holderlin si scaglia, avrebbero a quel punto inneggiato ai quadrati delle camicie brune, o forse sarebbero divenuti alcuni di quegli «uomini comuni» su cui si basava la forza totalitaria del regime, contribuendo a precipitare la Germania nell’abisso di un’altra sconfitta.

Da questo testo, tra le più interessanti testimonianze del fallimento dello «spirito di Locarno» nell’Europa che stava scivolando verso la Seconda Guerra Mondiale, François Ozon ha tratto ora Frantz, acclamato come una delle migliori pellicole presentate all’ultimo Festival di Venezia. Ma si sbaglierebbe a ritenerlo un mero remake. Lubitsch e Rostand avevano firmato due toccanti itinerari psicologici attraverso l’impossibile ritorno dei veterani, incapaci di ritrovare il «mondo di ieri» (per dirla con Zweig) e soprattutto la giovinezza perduta. Al duplice senso di colpa che dilania il protagonista (che è sopravvissuto e contemporaneamente omicida, per quanto questa categoria possa sembrare assurda nel carnaio della guerra), Lubitsch aveva sovrapposto la denuncia del peccato originale tedesco, l’orgoglio patriottico sordo alla realtà e dimentico dei propri peccati. Ma Ozon è andato ancora oltre, e ha trasformato il primo dopoguerra nello scenario di un radicale scontro tra la generazione dei padri, che ha voluto la guerra e ha celebrato la nobiltà della grande prova, e quella dei figli, che si sono sacrificati sul campo di battaglia.

 

«La mia sola ferita è Frantz»

 

Il film si apre nel livido scenario di una piccola cittadina tedesca nella primavera del 1919. La guerra è appena finita, la conferenza di pace di Versailles è ancora in corso, e l’esistenza dei tedeschi sembra nettamente divisa tra l’incapacità di superare il lutto e l’odio per i francesi vittoriosi. Anna (Paula Beer) è la giovane e inconsolabile fidanzata di Frantz Hoffmeister, caduto durante l’ultima offensiva imperiale nel settembre 1918. Tutta la sua vita si riduce ora al quotidiano pellegrinaggio sulla tomba dell’amato e alla quieta convivenza con i genitori di lui, Magda e il dottor Hoffmeister, il medico condotto, che dalla morte del figlio non esce più di casa. A interrompere il monotono dipanarsi di questo infinito cordoglio senza speranza giunge Adrien, un giovane francese che si presenta come un amico dei tempi in cui Frantz studiava a Parigi. Dopo un primo momento di rifiuto (in fondo è un veterano francese, e quindi un virtuale «assassino di mio figlio», come urla il dottore cacciandolo di casa) Adrien entra a far parte della piccola comunità in lutto della famiglia Hoffmeister. E’ un narratore instancabile di frammenti della felice stagione d’anteguerra, un giovane uomo colto e affascinante, sinceramente incapace di superare la perdita dell’amico: «la mia sola ferita è Frantz», dichiara. Adrien diviene ben presto una figura di sostituzione: incanta i coniugi Hoffmeister suonando per loro, come era solito fare il figlio perduto, ed esercita una discreta seduzione (ricambiata) su Anna, che in lui ritrova molto dell’amante perduto (che l’aveva introdotta all’amore per la lingua e la cultura francese). Ma non è tutto un idillio. Nella cittadina, l’odio per «il francese» monta ben presto, alimentato da Herr Kreutz (Johann von Bülow), scialba figura di revanscista ultranazionalista, infelicemente innamorato di Anna, abituato a sfogare le proprie frustrazioni in roboanti discorsi sulla prossima resurrezione della Grande Germania ai tavoli della birreria. Non è difficile intravedere in questo agitatore da osteria l’icona del buon nazionalsocialista, mediocre e tronfio, e un’efficace citazione del grottesco putsch della birreria orchestrato da Hitler nel 1923 a Monaco.

 

«Siamo noi che li abbiamo mandati a morire»

 

 Apparentemente sconvolto dall’affetto riversato su di lui dagli Hoffmeister (ma senza che il perché sia subito rivelato allo spettatore), Adrien torna improvvisamente in patria, non senza aver confidato ad Anna il primo di molti sconvolgenti segreti che Ozon dissemina, con indiscutibile efficacia narrativa, nel corso di un film in cui nulla è mai ciò che appare. Dopo alcune settimane, Anna partirà per cercarlo, in un viaggio che si rivela una sorta di specchio dell’arrivo di Adrien in Germania. Scrutata con diffidenza dai viaggiatori francesi in quanto nemico, interrogata con sospetto da una guardia di frontiera che le chiede se è venuta a trovare un prigioniero, la giovane donna può rendersi conto di come la guerra stringa ancora la sua presa su un’Europa distrutta e in lutto: la smobilitazione delle culture dell’odio e dello spirito di crociata non è solo tardiva, spesso è impossibile. Il treno che la porta a Parigi rallenta e quasi si ferma nel mezzo di un panorama di allucinata distruzione: non è solo l’efficace citazione dell’umiliazione inferta alla delegazione di pace tedesca che, durante il trasferimento ferroviario a Versailles, venne costretta a prendere visione di ciò che le armate germaniche avevano causato alla Francia, ma anche un’ottima rappresentazione delle tracce durature della guerra totale, che affliggeranno il continente ben oltre la fine delle ostilità. Il ritorno alla normalità è ancora una chimera nel 1919. Nel frattempo, Hoffmeister padre è soggetto all’ostracismo della cerchia dei benpensanti patriottici della cittadina. Ed è proprio in questo frangente, quando il dottore ormai avviato sulla strada dell’elaborazione del lutto riesce ad uscire da casa e raggiungere la birreria dove un tempo soleva trovarsi con gli amici, che è ambientata la sequenza in cui più evidente risalta la denuncia della generazione dei padri come artefici del «sacrificio di Abramo» della generazione 1914. Aspramente contestato dagli (ex?) amici per aver accolto in casa sua un «nemico», Hoffmeister replica che sono loro, i padri, ad essere responsabili della morte dei propri figli, molto di più dei soldati francesi: loro li hanno incoraggiati a partire, loro li hanno esortati a indossare la divisa concionando sulla bellezza della morte per la patria. La citazione ironica di una delle più celebri sequenze di All’ovest niente di nuovo, il primo adattamento cinematografico del romanzo di Remarque, è evidente. Ma mentre nella pellicola di Lewis Milestone il padre, chiuso nel suo egoismo patriottico, presentava orgogliosamente il figlio, reduce avvilito, agli avventori della birreria (per poi lanciarsi in una spiegazione su come si sarebbe potuta vincere subito la guerra), qui Hoffmeister si erge moralmente sugli altri vecchi, sopravvissuti all’olocausto dei giovani, e confessa i peccati suoi, della sua generazione e della Germania intera. Forse è quel gesto che ne farà uno tra i pochi redenti.

Non è importante qui raccontare il lungo (e inatteso) finale del film. Basti anticipare che ogni facile illusione dello spettatore alla ricerca di un qualsivoglia happy ending è regolarmente disattesa, e che seguendo Anna nella sua ricerca di Adrien si viene proiettati anche in una progressiva scoperta della complessa trama di menzogne, imposizioni, ricatti sentimentali che connotano il rapporto tra padri e figli:  «una bugia a fin di bene non è peccato», per citare Anna, costretta infine a fare i conti con il disvelamento di un mondo che rovescia ogni illusione. Così, infine, Frantz ci consegna una riflessione acuta e attuale non solo sull’Europa di ieri. Attraverso lo specchio di un mondo dilaniato da odi insanabili e da propositi di vendetta, Ozon mette in scena infatti uno tra i più irriducibili conflitti di oggi: quello tra la generazione dei padri che tutto hanno avuto e tutto hanno deciso, lasciando dietro di sé un continente in macerie (economiche e sociali), e quella dei figli, costretta a lottare nel tentativo (spesso fallimentare) di costruirsi un avvenire e concedersi un po’ di felicità.