Ultimo Aggiornamento:
01 maggio 2024
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La guerra e la memoria: un commento al film di Ermanno Olmi

Alessandra De Coro * - 04.12.2014
Torneranno i prati

« Sull'Altipiano, comprese le bombarde pesanti da trincea, non v'erano meno di mille bocche da fuoco. Un tambureggiamento immenso, fra boati che sembravano uscire dal ventre della terra, sconvolgeva il suolo. La stessa terra tremava sotto i nostri piedi. Quello non era tiro d'artiglieria. Era l'inferno che si era scatenato. Trombe di terra, sassi e frantumi di corpi si elevavano, altissimi, e ricadevano lontani. Tutto il terreno tremava sotto i nostri piedi. Un terremoto sconvolgeva la montagna. »  Così Emilio Lussu, dal suo esilio parigino nel 1938, raccontava – in una forma fra il memoriale e il romanzo – la sua esperienza di capitano della gloriosa Brigata Sassari nella estenuante guerra di posizione sostenuta dall’esercito italiano sull’Altipiano dei Sette Comuni, fra il 1916 e il 1917. L’inglese Rudyard Kipling, che trascorse un breve periodo su quell’altopiano come osservatore, nel 1917 scrisse un breve saggio intitolato La guerra nelle montagne: Impressioni dal fronte italiano (Mursia 2011), in cui descriveva gli alpini come «giovani energici e pieni di vitalità, che si affaccendavano intorno alle tavole, alle putrelle e alle casse di materiale vario …», mentre «al di sopra di tutto questo fermento si sporgeva la montagna imponente, la cui cima distava ancora centinaia di metri». Con uno stile epico e solare, Kipling, pur ricordando le asperrime condizioni della «routine della postazione» e le fatiche estreme di quegli uomini, ne metteva in luce le risorse, il coraggio, perfino la creatività, soffermandosi sull’esperienza umana del gruppo di alpini.

Sullo stesso altopiano, in una notte invernale illuminata dalla luna, si svolge il film torneranno i prati del regista bergamasco Ermanno Olmi, uscito nelle sale cinematografiche il 6 novembre scorso: il titolo in lettere minuscole annuncia il minimalismo dell’opera, dedicata anch’essa ad un’illustrazione dell’esperienza soggettiva della guerra, evitando valutazioni storiche retrospettive. Lo stile narrativo di Olmi, tuttavia, è elegiaco e, se così può dirsi, lunare, nella misura in cui le dimensioni psicologiche “notturne”, oscure e silenziose, della vita quotidiana in una trincea (le ombre della paura, del dolore, del senso di perdita e della nostalgia di un’altra vita lontana nel tempo) gettano una luce diversa sugli ideali eroici, sulla fede, sul senso del dovere e della responsabilità dei soldati e degli ufficiali.

La canzone di Libero Bovio Tu ca nun chiagne, cantata in napoletano dal conducente del mulo che porta il rancio e la posta agli uomini della trincea, apre lo scenario con il tema della nostalgia e della rassegnazione: Comm'è bella a muntagna stanotte / bella accussì nun l'aggio vista maie!/ 'N'anema pare rassignata e stanca / Sott’a cuperta 'e chesta luna janca. Il Vesuvio della canzone si confonde con la maestosità della montagna alpina, così come il dolore di un innamorato respinto si confonde con il dolore dei soldati lontani dai loro cari: nel ritornello, un verso recita che gli occhi di chi sta cantando vorrebbero rivedere l’amata almeno “un’altra volta”.

Il film attrae dunque lo sguardo dello spettatore sul contrasto fra la calma e la sovrana bellezza del paesaggio innevato e illuminato dalla luna e la sofferenza vissuta dagli uomini all’interno del rifugio, scavato nella terra per sopravvivere al gelo e per tenere le posizioni, con una missione che si rivelerà impossibile di fronte al prolungato cannoneggiamento da parte del nemico. All’interno della trincea, prevalgono le emozioni e i conflitti degli individui, letti ancor più dai gesti che dalle parole: quegli uomini appaiono stanchi, affamati, infreddoliti, abbrutiti dalle condizioni traumatiche in cui vivono, ma anche pieni di paura e di rabbia. La paura che spinge un soldato a spararsi piuttosto che esporsi al fuoco austriaco; la rabbia che spinge il capitano a strapparsi le mostrine del suo grado perché vuole essere uguale ai suoi soldati e si rifiuta di trasmettere loro ordini incomprensibili.

Ma la lezione di Olmi va oltre una rappresentazione poetica del dolore mentale nella guerra, poiché indica anche l’unico rimedio possibile all’esperienza del trauma: la memoria. Il ricordo delle persone e delle relazioni umane ricorre in diverse scene del film, come legame superstite con la vita “vera”, la vita di prima della guerra: le lettere e le cartoline inviate dai familiari al fronte, come traccia sensibile di quei ricordi; il giovane e inesperto tenente che affida l’esperienza di quella notte al futuro, con una lettera alla madre; il capitano che, ricordando il momento della consegna della posta, cerca di memorizzare i nomi dei suoi soldati, di cui alcuni sono già morti ed altri moriranno a breve; la sentinella che guardando il larice spoglio sulla neve ne ricorda l’immagine dorata dell’autunno: “quando tutti gli altri diventano color ruggine, questo albero si riveste d’oro”, dice nel suo dolce dialetto veneto e gli si illuminano gli occhi.

La memoria, come scrive il neurobiologo Antonio Damasio nel suo saggio Emozioni e coscienza (Adelphi 2000), è il fondamento della “coscienza estesa”, che permette la costruzione del senso di sé: questo “scaturisce dalla costante e reiterata presentazione di alcuni dei nostri ricordi personali, (…) quelli che possono facilmente dimostrare, istante per istante, la nostra identità e il nostro essere persona”. Inoltre, è ancora la memoria che tramanda di generazione in generazione il senso dell’appartenenza di ciascuno a un’identità collettiva, in una continuità biologica e culturale, pur nelle infinite sfumature delle differenze individuali. Perciò Olmi ci affida la memoria di suo padre (che narrava al figlio bambino la propria esperienza della Grande Guerra) con il compito di continuare a ricordare. Occorre contrastare la tendenza a dimenticare, dolorosamente espressa nella frase finale di un soldato sopravvissuto, che dà il titolo al film: “Quando a primavera crescerà l’erba nuova, di quel che c'è stato qui non si vedrà più niente e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero".

 

 

 

 

* Psicoanalista, già professore di Psicologia dinamica presso l’Università «La Sapienza» di Roma