Ultimo Aggiornamento:
04 maggio 2024
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Un paese spaccato in due

Paolo Pombeni - 13.03.2024
Marsilio

Per quanto sia sempre opportuno invitare a non trasformare ogni elezione amministrativa in un giudizio apocalittico, non c’è dubbio che da esse si possano e si debbano trarre insegnamenti. Ci permettiamo di dire che il primo e più importante è che siamo un paese più o meno spaccato in due: ma non fra destra-centro e i suoi avversari che non si sa più come chiamare, ma fra una metà che partecipa al voto ed una che lo diserta. Anche in Abruzzo ha votato il 52,2% degli aventi diritto, nonostante una campagna che aveva spinto alla mobilitazione e che era stata drammatizzata non solo a livello locale, ma anche a livello nazionale. Non è banale: di solito quando gli elettori si sentono investiti di un ruolo di rappresentanza per il futuro del sistema nel suo complesso si sentono più motivati a partecipare, anche come orgoglio per la considerazione di cui godono fuori dei loro confini.

Questo non è accaduto e non è bene far finta di nulla. Crolla sempre più la leggenda che gli astenuti siano truppe massicce di una delle parti in causa, moltitudini che si possono ri-mobilitare vincendo la loro presunta delusione per quei partiti. È piuttosto da considerare che, a parte i vari limiti oggettivi alla partecipazione elettorale (residenza fuori regione per lavoro, difficoltà di movimento, anziani, ecc.), la spiegazione più probabile è che per una cospicua quota dei nostri concittadini i politici sono tutti eguali e poco importa chi vince: comunque quel poco o tanto che funziona continuerà a farlo con chiunque vada al potere e quel che non funziona continuerà comunque a non funzionare.

L’esempio classico a questo proposito è il sistema sanitario. In genere la sinistra contesta alla destra al governo i tempi eterni di attesa per esami e interventi, medicina di base che non funziona, ecc., peccato che quelle disfunzioni esistano più o meno in tutte le regioni: per la semplice ragione che in gran parte dipendono da notevole carenza di medici e infermieri, scarsità di strutture idonee, difficoltà a gestirle, e via elencando. Problemi strutturali che non dipendono se non in minima parte dal colore delle amministrazioni, quanto piuttosto da un accumulo storico di malfunzionamenti.

Se dunque si ha riguardo al problema del restringersi della platea dei partecipanti alla contesa elettorale, ne discende che questa è formata grosso modo da due componenti: i fedeli ad una collocazione più o meno ideologica, e gli interessati ad una gestione dell’amministrazione senza troppe avventure ideologiche. Ora la maggior parte dei gruppi dirigenti dei partiti è convinta che il tema sia serrare le fila della prima componente e galvanizzarle al massimo. Di qui la radicalizzazione movimentista che tanto affascina le mosche cocchiere di molti talk show.

I numeri dell’Abruzzo sembrano smentire queste impostazioni. A destra la Lega, che rappresenta quella componente barricadiera, è passata dal 27,5% raccolto alle regionali del 2019 ad un magro 7,5%, vendendosi ridurre il già risicato risultato delle politiche del 2022 (8,3%). A sinistra i Cinque Stelle sono crollati ad un miserando 7,1% dal 19,7 delle precedenti regionali e dal 18,4 delle politiche. In un cantuccio è rimasta anche l’Alleanza Verdi-Sinistre con un modesto 3,5%. Al contrario Forza Italia, che rappresenta l’anima moderata del destra-centro, ha raccolto un notevole 13,4% nonostante il suo muoversi senza Berlusconi, ciò che era stato spesso considerato come il preludio alla sua marginalizzazione. È andata benino anche per Azione di Calenda con un 4% che non è poco per un piccolo partito che ha più immagine nazionale, che radicamenti locali.

Il PD ha avuto un buon risultato raggiungendo il 20,2% e dunque superando il risultato delle politiche del 2022 (16,6%). Qui, a nostro modesto avviso, paga la natura composita del partito che ad una leadership nazionale per lo più movimentista affianca un tradizionale radicamento nei territori con classi dirigenti legate alla politica più professionale (che, pur con molti limiti, risulta ancora una garanzia per una componente significativa dell’elettorato).

La conclusione che si dovrebbe trarre da questa analisi è che la situazione non è affatto rappresentabile con le esaltazioni sul cambio del vento che abbiamo visto abbondare a sinistra dopo la vittoria sarda: quando si vince con uno scarto di 1600 voti e grazie ad errori marchiani degli avversari nella scelta dei candidati non c’è stato nessun vento nuovo, al massimo un refolo che ha portato un colpo di fortuna. Il paese resta spaccato in due fra coinvolti nella vita politica ed indifferenti ad essa, sicché la competizione deve svolgersi nel primo campo. Ciò significa che si lavora per spostare i voti al centro del campo, cioè quelli di coloro che chiedono non radicalismi per compiacere alle rispettive curve, ma azioni di governo per gestire una fase difficile della nostra vita nazionale.

Per vedere se i partiti arriveranno alle conclusioni che a noi paiono inevitabili, dovremmo però attendere ulteriori risultati: sia nelle elezioni regionali prossime (Basilicata, Umbria, Piemonte) sia soprattutto nelle elezioni europee dove ogni partito si presenta per sé stesso. Se in questi contesti i due partiti populisti più consistenti, la Lega salviniana e i Cinque Stelle di Conte, vedranno continuare il pesante ridimensionamento, se FI e Azione avranno buoni piazzamenti, si aprirà la possibilità per Meloni di far virare FdI verso un conservatorismo moderno e per il PD di mettersi alle spalle la stagione del movimentismo prigioniero dei miti del vecchio e nuovo radicalismo.

E allora inizierebbe davvero una nuova stagione politica.