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Tutti a Tripoli?

Massimiliano Trentin * - 21.02.2015
Tobruk

Quello che si sperava non accadesse, si è infine materializzato: la Libia, e le sue ricchezze materiale e umane, non sono solo più oggetto di lotta all'ultimo sangue tra fazioni di ribelli e i loro sostenitori esteri, peraltro tutti facenti parte in diversi modi della grande "coalizione" anti-Stato Islamico. La Libia è oggetto di conquista anche dello Stato Islamico, cioè di una forza politica che si muove al di fuori delle "normali" dinamiche di politica di potenza a cui siamo abituati e che tanto spaventa Paesi vicini e lontani. In altre parole, parti importanti dell'ex Jamahirriya di Gheddafi rischiano di essere governate da una forza la cui ideologia e prassi politica sono difficilmente compatibili con le minime, ma proprio minime, norme di comportamento stabilite per consenso dal diritto e dalle relazioni internazionali: a cominciare dal desiderio "irredentista" di ricostruire l'unità del mondo islamico sotto la bandiera del Califfato.

Da qui l'allarme internazionale, l'intervento diretto dei Paesi vicini, Egitto in primis, e i negoziati dei Paesi occidentali per "contenere" la minaccia dello Stato Islamico in Libia. Le voci si levano alte per un intervento militare in combinazione con la costituzione di un governo di unità nazionale, cioè di un processo politico inclusivo di tutte le forze, tranne gli affiliati dello Stato Islamico. Voci e propositi tanto difficili da realizzare data la situazione sul campo quanto imprescindibili per trovare una soluzione al conflitto. Il poco o nulla di fatto raggiunto nella riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu di mercoledì 18 febbraio è indicativo: non tanto per le divergenze nelle posizioni come nel caso della Siria, ma perché non si capisce ancora quale possa essere una soluzione realistica.

Conviene allora riflettere alle ragioni che hanno permesso al movimento dello Stato Islamico di prendere piede in Libia. L'esperienza in Siria e Iraq dimostra come lo Stato Islamico abbia saputo imporsi sul terreno grazie alla sua forza militare-finanziaria e al collasso delle istituzioni statali. L'uso sistematico della violenza più brutale, a livelli di genocidio, ha inibito le forze e le forme di opposizione delle società, senza peraltro poter eliminare l'insofferenza manifestata nei confronti dei miliziani del supposto califfato. Al momento in Siria e in Iraq lo Stato Islamico governa anzitutto grazie al dominio dello spazio pubblico, più che al consenso o addirittura all'egemonia. Il sostegno dei gruppi tribali è ancora strumentale alla loro sicurezza nei confronti delle precedenti autorità statali. La forza coercitiva rimane dunque ad oggi il pilastro essenziale dello Stato Islamico nel suo farsi "stato", appunto. Tuttavia, nonostante le indubbie capacità di guerriglia, la maggioranza delle volte in cui i suoi miliziani si sono scontrati con forze militari ben addestrate, ben armate e ben motivate (a difesa delle proprie comunità, o della "nazione"), lo Stato Islamico è sempre stato sconfitto: in Iraq, in Siria come nella Rojava curdo-siriana. Da questo ne deriva l'efficacia dello strumento militare, se ben calibrato, nello sfatare il mito dell'invincibilità dello Stato Islamico. Ma questo non può, e non deve essere l'unico strumento di lotta. In senso ben più strategico, serve la ricostruzione su basi allargate, consensuali e partecipate delle istituzioni statali che possano garantire sicurezza e sviluppo di un territorio. E qui, ogni realtà sociale trova le proprie modalità di organizzazione della vita collettiva: Kobane insegna.

Per questo motivo, è auspicabile che la mediazione internazionale e delle Nazioni Unite sostenga e prema per la costituzione di un governo di unità nazionale che metta assieme le autorità riconosciute internazionalmente con sede a Tobruq (appoggiate da Egitto e Emirati Arabi Uniti) e le autorità islamiste con sede a Tripoli. Certamente, nessuna delle due brilla per democraticità, anzi. Ma la pace è anche un processo per cui da "nemici" si diventa "rivali". I recenti scontri militari tra le due fazioni mostrano le difficoltà del percorso, eppure i mediatori ONU sostengono che vi siano i margini per un accordo e, come sempre, prima di raggiungerlo ogni parte cerca di conquistare più posizioni possibili. Ucraina e Siria insegnano.

Per raggiungere tale risultato, però, è necessario un altro passaggio, fondamentale. Costringere i soggetti che finora hanno armato e spinto le diverse fazioni verso improbabili progetti di conquista e di governo dell'intera Libia a fermarsi, o almeno condizionare il sostegno alla partecipazione ad un progetto comune. E qui si torna al punto iniziale. Costringere Paesi come il Qatar a rivedere le proprie posizioni e strategie in Libia, e fermare o condizionare il proprio sostegno alle forze islamiste, e altrettanto per quanto riguarda Egitto, Emirati Arabi Uniti e i membri della UE nei confronti delle forze nazionaliste di Tobruq. In un territorio in cui le relazioni sociali collettive e la lotta politica hanno assunto carattere armato, il controllo delle fonti di finanziamento e di armamento sono essenziali per prolungare o fermare la guerra. L'ultima volta che furono chiamati ad esprimersi nelle urne, nel luglio 2012, i cittadini libici premiarono le forze laiche e moderate, appunto perché in Libia sono sempre prevalse le correnti e non radicali dell'Islam.

L'Italia svolge un ruolo particolare nei confronti della popolazione libica. Ha un passato coloniale doloroso che non può essere sottovalutato, mai, a maggior ragione quando si parla di intervento "militare". Ma gode anche di una vastità e profondità di relazioni sociali, economiche e politiche amichevoli che nessun altro Paese europeo può vantare. Ed è sulla base di questa complessità di relazioni che la diplomazia italiana può svolgere un lavoro formidabile di mediazione, di consenso e di unità. La chiusura de facto dell'Ambasciata italiana a Tripoli, sicuramente dovuta a minacce serie e circostanziate, è un ostacolo da superare il prima possibile, appunto perché è un presidio politico di enorme importanza.

Non si può certo fare affidamento sull'avventurismo militare dei "cugini" d'oltralpe, la cui autoproclamazione a "garanti" della sicurezza (europea e statunitense) in Nord Africa, a conti fatti, è più parte del problema che della soluzione. E di certo non ha mai favorito gli interessi italiani dopo il 1945.

 

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna