Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Torniamo alle Guarentigie?

Andrea Frangioni * - 29.09.2015
La legge delle guarentigie

I tragici fatti di gennaio hanno inevitabilmente attribuito nuova centralità, in Francia, al problema dei rapporti tra Stato e religioni. Come ha segnalato Francesca Barca su “Una città”, agli inizi di marzo il primo ministro Valls ha proposto di “formare” “imam francesi”, che parlino in francese nelle moschee. E’ stato anche proposto di introdurre un obbligo per i futuri imam di frequentare “corsi di laicità” e di consentire un finanziamento pubblico per la costruzione delle moschee, in modo da evitare influenze fondamentaliste. Un finanziamento diretto delle moschee risulta in realtà in contrasto con la legge del 1905 sulla separazione tra Stato e Chiese;  una relazione di marzo della Commissione per le autonomie territoriali del Senato francese suggerisce allora, in maggiore coerenza con tale legge, l’introduzione dell’obbligo di presentazione, per la costruzione di nuovi luoghi di culto, di un piano di finanziamenti, certificato da un revisore contabile. Secondo alcuni questa previsione potrebbe concretizzarsi attraverso un aggiornamento della normativa sulle associations cultuelles previste dalla legge del 1905 per l’amministrazione dei luoghi di culto.

Associations cultuelles: questo termine evoca in Italia le analisi sui fatti francesi del 1905 compiute da Ruffini, Luzzatti, Salvatorelli, Jemolo e anche in alcune pagine crociane della Storia d’Europa; le associations cultuelles erano associazioni di fedeli destinate ad assumere l’amministrazione dei beni della Chiesa cattolica, sottraendola alle gerarchie ecclesiastiche. La Santa Sede non accettò questo modello e dopo molti contrasti nel ’24 la Francia dovette cedere e riconoscere che le associations potevano coincidere con le gerarchie ecclesiastiche. Chiese protestanti e comunità ebraiche accettarono invece di organizzarsi in associations cultuelles. Appare però evidente che le associations fossero state concepite in un’ottica “laicista” per sottrarre potere e influenza alla Chiesa cattolica, intesa come realtà di un “mondo di ieri” destinata ad essere superata dal progresso. L’idea di associazioni di fedeli per l’amministrazione dei beni ecclesiastici era circolata, subito dopo l’Unità, anche in Italia, soprattutto ad opera di Ricasoli: qui però l’ottica non era antireligiosa ma anzi, attraverso tali associazioni, si intendeva aprire la via ad una democratizzazione interna della Chiesa e ad una conciliazione tra Chiesa e liberalismo, nella convinzione di una funzione sociale della religione. E  mi pare che con la finalità analoga di stimolare una riforma interna dell’Islam il tema della associations sia ripreso oggi in Francia.

In pagine molto belle, Ruffini, Jemolo e Chabod hanno giudicato illusoria la prospettiva di Ricasoli, un liberale animato da una forte tensione religiosa, di stimolare una riforma religiosa dall’esterno, attraverso l’utilizzo del potere politico. Questo è a maggior ragione vero per i leader della Francia secolarizzata di oggi. E’ bene quindi abbandonare l’idea di costruire a tavolino un “Islam repubblicano” attraverso i “corsi di laicità”. Appaiono invece più che ragionevoli le misure per evitare infiltrazioni jihadiste nelle moschee attraverso maggiori controlli sui finanziamenti e sulle ricadute politiche della predicazione nelle moschee.  

Si tratta però, è bene notarlo, di allontanarsi da un rigido separatismo tra Stato e religione per avvicinarsi a un modello che sembra ricordare piuttosto quello italiano della legge delle guarentigie, definito da Francesco Ruffini “giurisdizionalista liberale”: lo Stato tutela la libertà di religione dei singoli, non si intromette nella vita delle organizzazioni religiose e ne riconosce il valore sociale. Al tempo stesso, però, la legge disciplina le manifestazioni della vita delle organizzazioni religiose che assumono rilevanza di “diritto pubblico”, cioè d’interesse per la vita generale della comunità.

  Forse il modello “giurisdizionalista liberale” potrebbe oggi funzionare meglio che tra ‘800 e ‘900. Allora infatti, un po’ ovunque in Europa, lo Stato non riuscì a gestire in modo equilibrato il suo rapporto con le fedi religiose: troppo forte era il dogma dell’assoluta sovranità statale e, quindi, troppo forte la tentazione dello Stato di imporre, in alternativa a una Chiesa cattolica non conciliata con la modernità, un suo complessivo sistema di valori, sia nella forma della “laïcité de combat” francese o del Kulturkampf di Bismarck, sia in quella, ben più minacciosa, della “statolatria” delle tirannie novecentesche. Oggi invece la sovranità dello Stato è, in Europa, “evaporata”, vincolata com’è dal rispetto di Costituzioni rigide e di ordinamenti sovranazionali di tutela dei diritti umani (si pensi alla Corte europea dei diritti dell’uomo); l’idea assoluta della sovranità statale è inoltre  messa in discussione dalla compiuta affermazione dell’autonomia degli individui che, come osserva Marcel Gauchet, rende impossibile, nel bene e nel male, l’affermazione di alcun “sistema di valori eteronomo”, anche di quello dello Stato laico. Lo Stato, insomma è assai meno minaccioso.

Allo stesso tempo, e questa è forse la difficoltà maggiore, occorre rendersi conto che non si tratta di tecnicalità giuridiche, ma di un problema ben più profondo: ancora oggi la storia è principalmente, come scriveva Ranke, storia del conflitto tra Stato e Chiesa, o, in altre parole, del contrasto tra Ethos e Kratos, tra l’aspirazione a valori universali e il concreto agire del potere sull’uomo nella storia, un contrasto che attraversa le vicende delle organizzazioni politiche e di quelle religiose.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea, è autore di Salvemini e la Grande Guerra.