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Riparte l’università?

Michele Iscra * - 20.08.2015
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Piuttosto in sordina, almeno nei media perché  è ormai questione che interessa una nicchia, sta rimettendosi in moto il meccanismo che dovrebbe dinamicizzare il nostro sistema universitario. La procedura per la valutazione della ricerca nel periodo 2011-2014 da parte dell’ANVUR è ormai avviata in forma ufficiale. E’ stato anche annunciato che si riattiverà una tornata per il conseguimento delle “abilitazioni nazionali”, sia pure con una serie di novità non tutte ancora chiare (salvo la cosiddetta “procedura a sportello”, cioè la possibilità di presentare domande durante un biennio senza scadenze uniche prefissate) e con tempi non proprio rapidi.

Si tratta di due interventi senza dubbio rilevanti. Il primo soprattutto perché consolida la scelta di responsabilizzare il sistema accademico a rendere conto della sua produttività, sempre nella speranza che poi di queste rilevazioni si tenga conto almeno nella distribuzione delle risorse (per la verità in parte lo si è fatto, ma bisogna osare un po’ di più). Il secondo perché consente che non si perpetuino disparità generazionali fra chi aveva conseguito le abilitazioni nella prima tornata e dunque poteva valersi per la propria carriera di quelle valutazioni e chi non aveva potuto farlo (o a volte era stato penalizzato da commissioni che non sempre hanno agito nel modo più condivisibile).

Il problema è che entrambe le occasioni avranno bisogno di una “direzione”, per non dire di un “governo” che non è detto esista in maniera soddisfacente. Certo per analogia si potrebbe dire che per il sistema universitario italiano potrebbe valere una sconsolata affermazione di De Gaulle sul governo della Francia: “E’ impossibile governare un paese che ha oltre 400 tipi di formaggio”. Effettivamente un sistema come il nostro con una proliferazione di sedi e di corporazioni disciplinari più che notevole risulta quanto mai restio ad accettare canoni di valutazione un minimo standardizzati.

Questo è il tema comune tanto alla operatività dell’ANVUR quanto a quella delle commissioni di valutazione delle abilitazioni nazionali. Il tema esiste per tutte le discipline, ma in particolare per le scienze umane e sociali, perché le altre di per sé avrebbero standard internazionali a cui si può agevolmente fare riferimento. Non che in quei casi sia impossibile manipolarli (gli scandali in vari settori della medicina hanno insegnato parecchio al proposito), ma accertare le violazioni è relativamente più facile. Per le scienze umane e sociali siamo invece al “io la penso così”, per non dire di peggio. Tutti sanno che, tanto per fare un esempio, quando si tenta di valutare come superiore chi ha prodotto studi con impatto internazionale, si scopre che, chissà come, siamo pieni di studiosi notissimi in tutto il mondo. Una cosa che chiunque abbia girato il mondo sa palesemente non essere vera, a volte anche solo per il fatto che studi scritti in lingua italiana, pur notevoli,  non hanno per questa sola ragione una circolazione che superi in maniera significativa i nostri confini nazionali.

Il problema centrale è, e non da oggi, quello d produrre standard di valutazione che siano noti in anticipo, condivisi, e che fanno stato. Chi giudica deve attenersi a quelli, anche se, magari non solo legittimamente, ma anche del tutto a ragione, può considerarli non adeguati. Le battaglie per lo sviluppo metodologico e strutturale delle discipline non si fanno con vendette nei sistemi di selezione, ma cercando di conquistare alla propria tesi il consenso dei pari, possibilmente producendo risultati di ricerca e non proposte astratte di nuove metodologie.

Si tratta di una questione di buon senso, che in passato e in altri sistemi era già stata individuata. Per dare un esempio, un tempo in Germania per l’abilitazione nella storia contemporanea si richiedevano due monografie, una di argomento sull’Ottocento e un'altra avente ad oggetto il Novecento. Stabilire seriamente che per esempio nelle abilitazioni, che sono abilitazioni ad un ruolo anche di insegnamento, il candidato non può avere studiato un unico argomento pur riproposto in molte sfaccettature sarebbe essenziale. Soprattutto nelle discipline dove non ci sono basi manualistiche condivise e giudicate imprescindibili il caso di candidati che in realtà hanno formazioni iperspecialistiche poco adatte a configurare il profilo di uno studioso che domina i problemi generali di un settore disciplinare non sono affatto infrequenti.

Questa sedimentazione di criteri generali a cui poi di fatto si atterranno tutti, sia chi si prepara ad essere giudicato, sia chi dovrà dare il giudizio, rappresenta un traguardo raggiungibile? Questa è la vera domanda che deve trovare risposta se vogliamo avere un sistema universitario che possa competere a livello internazionale e dunque che possa immettere sul mercato laureati all’altezza della concorrenza che ormai non conosce più confini nazionali.

Le lobby disciplinari in più di un caso resistono perché temono che questo le spingerebbe fuori dalle loro attuali posizioni di potere, ma è per questo che bisogna poter contare su un saldo “governo” di tutte le procedure di valutazione.

 

 

 

 

* Studioso di sistemi politici e culturali